CULTURA

Venezia 78: The power of the dog e la doppia natura dei bulli

Jane Campion pesca dalla letteratura, sempre attualissima, ispirandosi a un romanzo del 1967 di Thomas Savage per il suo film The power of the dog, in concorso alla 78esima Mostra del Cinema di Venezia. È stato definito un western, ma lo è solo per l'esubero di cavalli e polvere: in realtà i temi e le dinamiche che si snodano nel corso della pellicola sono molto più introspettive, e con un vago retrogusto inquietante. Siamo in un ranch del Montana degli anni Venti, dove un gruppo di uomini, capitanati da Phil (Benedict Cumberbatch), cercano di comportarsi come se il tempo non fosse mai passato: di giorno lavorano e poi si sbronzano, facendo a gara a chi beve di più e rimpiangendo i tempi del selvaggio West, un'epoca di veri eroi come Bronco Henry, che riusciva a domare cavalli indomabili, un'epoca in cui schioccando le dita si poteva avere tutte le donne che si desideravano, un'epoca in cui era perfettamente accettabile non farsi il bagno, e anzi ci si sarebbe stupiti del contrario.

Phil è un omofobo, ma soprattutto è un bullo: "se non si vede non esiste", dice nel corso del film.  In particolare, i sentimenti per lui non esistono, e se esistono è meglio non tirarli fuori, perché il rispetto dei sodali si guadagna così. Se si fermasse a pensare, infatti, Phil sarebbe ne sarebbe soverchiato, perché non ha gli strumenti psicologici per riuscire a interpretarli. E così dà del frocetto a Peter, figlio di Rose (Kirsten Dunst), a cui piace costruire fiori di carta e coccolare gli animali, e per farsi forza disprezza pubblicamente madre e figlio, anche perché il marito di Rose è morto suicida: una famiglia di deboli, insomma, che Phil si sente in diritto di insultare senza scrupolo alcuno, per riderne con i compagni e sentirsi al sicuro, in un ambiente tossico in cui si sente il re, e in effetti è adorato come un dio. Sennonché un giorno George (Jesse Plemons), il fratello di Phil che vive insieme a lui e che è fatto di tutt'altra pasta, decide di sposare proprio Rose. Phil non la prende bene, e comincia a mettere in atto una serie di comportamenti persecutori per rovinare la vita della nuova famiglia che si è creata in casa sua, aiutato dai compagni che stravedono per lui e per gli ideali di mascolinità che rappresenta.

Phil è un bullo, dicevamo. Si fa forte del gruppo, pensa di poter distruggere facilmente Rose e suo figlio, perché sono dei deboli, e i deboli sono facili da schiacciare. Provoca Rose di continuo, fino a ridurla all'ubriacona che non era mai stata. Peter si arrangia invece come può: si scrolla di dosso con relativa noncuranza gli insulti, ma quando viene circondato dai mandriani che gli cavalcano intorno fare finta di niente diventa difficile. E così prova a reagire. Peter e Rose rappresentano due delle modalità tipiche di (non) reagire al bullismo. Alcuni soccombono, altri cercano di combattere, diventando, a loro volta, dei bulli. E questi secondi possono diventare pericolosi, anche perché non potendo competere sul piano fisico tendono a diventare subdoli.

Per chi ci dobbiamo dispiacere a questo punto? Per il bullo omofobo, che crede di poter controllare Peter mettendolo contro sua madre? Per il bullo subdolo che risponde alla provocazione? Per quello dei due che finisce peggio? Il confine non è chiaro, schierarsi è uno sforzo titanico e qualsiasi decisione prendi sbagli. Se arriviamo a parteggiare per uno dei due contendenti, il sistema malato ha già avuto il sopravvento. Perché quello che è certo è che qualsiasi tipo di bullismo, dal più urlato al più strisciante, porta con sé conseguenze estreme, in un'atmosfera tossica che è la cifra stilistica del film della Campion. Gli spazi sono immensi, ma si percepisce un senso di claustrofobia nei particolari insistiti (come le mosche sul pelo dei cavalli) che, insieme a una fotografia calda e molto satura danno un senso di soffocamento che ricorda quello del caldo opprimente del più classico mezzogiorno di fuoco. Non c'è redenzione per nessuno in questo film: chi ci vede un lieto fine non ha capito chi è il nemico. Il cattivo non è Phil e non è Peter: c'è un sistema culturale che continua a riproporsi da sempre (è in questo che il libro di Savage è attualissimo, che ti fa perdere il sonno come ha dichiarato Campion), ogni volta che la legge del più forte ha il sopravvento, che si parli di violenza  fisica o di prevaricazione intellettuale. I personaggi non riescono a uscire dalla loro visione parziale della realtà, non si affrancano da un sistema che sembrano essersi creati apposta per essere infelici e che non lascia alcuno spiraglio di speranza a chi rimane.

Questo nuovo vecchio West ha lo stampo opprimente di un luogo da cui l'uomo non può fuggire: la regia intimista della Campion ci fa capire che questa guerra è cominciata ben prima dei personaggi, è qualcosa di atavico che scorre dentro a chi sa di avere un qualche potere sugli altri, qualcosa che non si può combattere a suon di singole battaglie e che quasi mai viene affrontato su un piano più ampio, perché non ne siamo capaci. Chi rimane può solo illudersi di poter ottenere una qualche forma di felicità, dovuta per lo più all'assenza di dolore, pur non avendo mai affrontato realmente il problema.

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