UNIVERSITÀ E SCUOLA

Non solo musica: il mercato nero della ricerca scientifica

Lo conoscono (e se ne servono) in parecchi in tutto il mondo: 28 milioni di download in sei mesi, da una piattaforma che conta quasi 50 milioni di documenti. È Sci-Hub, uno dei maggiori siti web a livello mondiale da cui scaricare gratuitamente articoli scientifici, aggirando la necessità di pagare gli editori che di quegli articoli detengono i diritti. Inutile dire che si tratta di un sistema illegale, contro cui si è mosso Elsevier e che alimenta il mercato della “pirateria scientifica”. 

John Bohannon in un articolo su Science fornisce le dimensioni del fenomeno. Contatta direttamente Alexandra Elbakyan, la giovane neuroscienziata che nel 2011 ha creato la piattaforma, la quale estrapola i dati e li rende disponibili. Da settembre 2015 a febbraio 2016 dei 28 milioni complessivi, sottolinea Bohannon, 4,4 milioni di download provengono dalla Cina, 3,4 milioni dall’India, più di 2,6 dall’Iran. Seguono Russia e Stati Uniti. Un quarto delle richieste di articoli arrivano dai 34 Paesi dell’Organisation for Economic Cooperation and Development (Oecd), segno che non sono solo le ragioni economiche, negli Stati più poveri, a spingere in questa direzione. Il traffico, anzi, è particolarmente intenso in alcune università statunitensi ed europee, dove si suppone che l’accesso alle riviste scientifiche sia più facile grazie anche agli abbonamenti istituzionali. Sono stati contati a livello mondiale 3 milioni di indirizzi IP e ciò significa che il numero di chi si serve di Sci-Hub è molto maggiore, dato che nelle università ad esempio le persone che condividono le stesse risorse informatiche sono molte. Si consideri poi che in alcuni Paesi, come in Iran, si utilizzano programmi per scaricare automaticamente gli articoli e creare una sorta di copia locale del sito. Sembra tra l’altro che esistano molti siti persiani simili a Sci-Hub. Se si guarda all’Italia ci si accorge che il sito non è sconosciuto. Solo per dare qualche numero esemplificativo, nella città di Padova in sei mesi i download sono stati 6.371, a Milano 24.172 (senza contare tutto l’hinterland milanese), a Roma 42.981.  

Sci-Hub è una delle principali piattaforme attraverso le quali ottenere articoli scientifici a costo zero, ma non è l’unico modo. Basti pensare ad esempio a #ICanHazPDF, un hashtag che consente di condividere articoli coperti da copyright. Capire le ragioni che inducono a servirsi di piattaforme come questa non è semplice, anche se qualche considerazione può essere proposta. 

John Travis, sempre su Science, fornisce i dati di un sondaggio online a cui hanno partecipato quasi 11.000 persone (di queste circa un quarto di età inferiore ai 25 annie quasi la metà di età compresa tra i 26 e i 35 anni). Chi ricorre alla piattaforma o ad altri siti pirata dichiara di farlo principalmente perché non ha accesso alle riviste (51%), per opporsi ai profitti degli editori (23%), ma ancheperché il sistema è più semplice di quello proposto dalle biblioteche o dagli editori (17%). Quanto alla frequenza, quasi il 26% dichiara di usare Sci-Hub ogni giorno o settimanalmente, il 33% poche volte, il 41% dichiara di non essersene mai servito. Fa riflettere poi il fatto che più della metà dei partecipanti (62%) ritenga che Sci-Hub possa scompaginare l’industria dell’editoria scientifica. Segno che i malumori nei confronti del sistema esistono, tanto più che l’88% dei partecipanti al sondaggio ritiene che non sia sbagliato ottenere articoli scientifici in questo modo. “Le riviste scientifiche – osserva Stefano Toppo, docente di proteomica e bioinformatica all’università di Padova – stanno sperimentando ora il fenomeno tanto diffuso della pirateria informatica su cui influisce la diversa percezione che gli individui hanno della tangibilità-intangibilità dell’oggetto rubato. In questo senso scaricare illegalmente un file Pdf, che è un bene intangibile, crea meno sensi di colpa nelle persone che accampano scuse ritenute ampiamente legittime”.   

In questo ingranaggio la più “colpita” è proprio Elsevier (che pubblica tra gli altri The Lancet e Cell) con quasi 9 milioni e 300.000 download effettuati da Sci-Hub, seguita da Springer con 2 milioni e 630.787 e dall’Institute of electrical and electronics engineers con 2 milioni e 138.064. Per questa ragione il colosso si è mosso per vie legali contro Alexandra Elbakyan e ha ottenuto da un giudice di New York di oscurare il sito. Con scarso successo dato che la piattaforma in realtà continua a offrire i suoi servizi. “Elsevier – ribatte la neuroscienziata in una lettera inviata al giudice – non è l’autore di questi articoli. Tutti i documenti contenuti nel loro sito sono scritti dai ricercatori, i quali non ricevono denaro da ciò che Elsevier riscuote”. Un percorso molto diverso dall’industria cinematografica o dal settore musicale in cui l’autore incassa una somma per ogni copia venduta. Perché dunque inviare il proprio lavoro alle grosse case editrici? “Ci si sente costretti a farlo – argomenta Elbakyan nella lettera – dato che Elsevier possiede le cosiddette riviste a elevato impact factor. Se un ricercatore vuole farsi conoscere e fare carriera deve pubblicare su queste riviste”. È la dinamica del publish or perish, ben nota in ambiente accademico. 

“Quello delle case editrici è anche un business – afferma Claudio Pagano del dipartimento di Medicina dell’università di Padova –, alla mission di diffondere le nuove scoperte si affianca quella di fare profitto. È comunque paradossale che un ricercatore debba pagare sia per pubblicare le proprie ricerche sia per leggere gli articoli degli altri ricercatori. Qualche casa editrice rende disponibili i lavori online, ma solo prima della pubblicazione a stampa. Si consideri poi che in tutto il processo di valutazione e selezione i referee, gli studiosi chiamati a valutare il paper in pubblicazione, lavorano gratuitamente”. E non sempre c’è proporzionalità tra livello della rivista e costi da sostenere. Una situazione complessiva che quantomeno “disturba”, ammette Pagano.

Qualche esempio. Per pubblicare su The Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism, una volta che l’articolo è stato accettato, è necessario pagare 119 dollari per ogni pagina stampata (107 euro) oltre a 735 dollari per ogni figura a colori (666 euro) e anche il download dell’articolo pubblicato è a pagamento; se si sceglie l’open access, dando così la possibilità di leggere gratuitamente il lavoro, il costo è di 3.000 dollari ad articolo (2.720 euro). Endocrine non prevede alcuna spesa di pubblicazione, ma per consultare i lavori serve l’abbonamento. Come la precedente anche questa rivista offre la formula dell’open access che costa all’autore 2.200 euro (senza Iva) ad articolo. Plos chiede invece tra i 1.495 e i 2.900 dollari (1.355-2.629 euro) per pubblicare un articolo che poi può essere scaricato gratuitamente. Altri editori seguono politiche diverse. L’Institute of Electrical and Electronic Engineers ad esempio, che gestisce molte delle pubblicazioni scientifiche nelle discipline ingegneristiche, consente allo scienziato di pubblicare sul proprio sito web o su quello dell’istituzione di appartenenza la versione finale dell’articolo accettato per la stampa. 

Se questo è il quadro, a emergere è soprattutto il concetto di scienza come patrimonio comune. “A mio avviso – argomenta Andrea Zanelladel dipartimento di Ingegneria dell’informazione – la possibilità di rendere gli articoli scientifici disponibili a tutti è fondamentale per consentire la rapida diffusione della conoscenza a livello globale, evitando di sprecare tempo e risorse a reinventare quanto è già stato fatto da altri. Inoltre si favorisce il trasferimento tecnologico, consentendo anche ad aziende medio piccole, che non sono in grado di sostenere le spese per un proprio reparto di ricerca e sviluppo o per la sottoscrizione alle librerie digitali, di avere una visione sui progressi tecnologici e sulle nuove possibilità che ne conseguono”. 

Monica Panetto

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