SOCIETÀ

Ogni libro ha una voce diversa

"Non è un semplice mestiere, somiglia di più a una vocazione. Non diventi traduttore, lo sei”. Leggiamo libri di grandi autori stranieri, ci immergiamo nelle storie, spesso però dimentichiamo che quelle parole sono state tradotte per noi con impegno e cura, tempo e fatica. Il traduttore si carica di responsabilità, a volte riuscendo persino a migliorare l’opera di uno scrittore. “Responsabilità è una delle prime parole che uso durante le mie lezioni, associandola a una seconda parola: etica”, spiega Anna Mioni, da quasi vent’anni traduttrice editoriale dall’inglese e dallo spagnolo per le maggiori case editrici (Guanda, Einaudi, Rizzoli, Feltrinelli, Marsilio, solo per citarne alcune), laureata in Italianistica contemporanea all’università di Padova con Silvio Ramat e con un master in traduzione letteraria dall’inglese a Ca’ Foscari, docente di traduzione e fondatrice dell’agenzia letteraria AC2. “Ai miei allievi lo ripeto sempre: abbiamo enormi responsabilità nei confronti dell’autore e del lettore. Soprattutto quando traduciamo libri difficili, perché è necessario restare più fedeli possibile al testo".

Quanto conta la ricerca in questo mestiere?

"Moltissimo. Tradurre significa prima di tutto cercare risposte e non dare per scontato di sapere già quale sia quella giusta. È importante non inciampare nell’ovvio e controllare anche quello che ci sembra evidente. Oltre a ricerca, un’altra parola chiave della traduzione è contesto: più esperienza hai e più sei in grado di riconoscere i contesti. Il testo ti parla se lo sai ascoltare, e se hai pazienza e cura trovi quasi tutte le risposte che ti servono dentro il testo stesso. Noi traduttori restiamo in ascolto, un po’ come facevano gli indiani, che appoggiavano l’orecchio sul terreno".

È un esercizio quotidiano.

"Esatto, perché se ti fermi rischi di arrugginire. E bisogna leggere tantissimo, avere sensibilità letteraria. Il bagaglio di letteratura è essenziale. Il percorso di studi che viene consigliato per fare questo mestiere continua a essere la facoltà di lingue, ma non deve essere per forza così, io conosco ottimi traduttori laureati in lettere".

Di fronte a un nuovo libro da tradurre, come ci si organizza il lavoro?

"Con il sindacato dei traduttori abbiamo fatto una stima delle ore impiegate: abbiamo calcolato cento pagine di testo originale al mese, lavorando tutti i giorni. In ogni caso non esiste un metodo uguale per tutti, il ritmo lo decide il traduttore. Non si consegna a pezzi perché il libro è un organismo conchiuso e compiuto. Non puoi decidere di chiudere la prima metà se non sai cosa accadrà nella seconda. Io, per esempio, lavoro bene in prossimità della scadenza, traduco il doppio in fase finale. Prima devo sintonizzarmi con la voce dell’autore e solo a quel punto inizio a tradurre".

Qual è l’aspetto più affascinante di questo lavoro?

"La cosa bella è che cambi lavoro ogni due o tre mesi, perché ogni libro ha una voce diversa, ogni libro è un viaggio irripetibile e per me, che sono una persona molto impaziente, questa è una fortuna. Non mi annoio mai".

Che rapporto si crea tra traduttore e scrittore?

"Tra traduttore e scrittore si crea un'intimità mentale. Traducendo finisci per capire molto bene come funziona la mente di uno scrittore. A volte capisci cose che non erano chiare neanche a lui".

Dei tanti libri tradotti, quale il primo, l’ultimo e il più amato?

"Che domanda difficile. È come chiedere a una madre quale figlio preferisce. Il primo libro che ho tradotto è stato In Marocco di Edith Wharton. L’ultimo in ordine di tempo è Set the boy free, l’autobiografia di Johnny Marr degli Smiths. Il mio preferito, però, non saprei dire qual è…"

Ma per ottenere un buon risultato, un  libro deve sempre piacere a chi lo traduce?

"No, l’importante è che sia ben scritto. Può essere un libro lontano dal tuo gusto. Io amo tradurre i libri che mi fanno scattare un meccanismo di agnizione, per poter ritrovare le parole precise e rendere esattamente quello che vuole dire l’autore: qualsiasi libro con cui è possibile fare questo diventa il mio libro preferito, perché mi dà piacere. In generale, quando traduco non leggo un libro tutto d’un fiato per sapere come va a finire, anzi, a leggere un libro per intero si corre il rischio di saperne troppo e spiegare al lettore quello che l’autore invece vuole tenere nascosto".

Di cosa vorresti occuparti ora?

"Mi piacerebbe occuparmi della ritraduzione di un bel classico moderno".

In generale, quali autori hanno segnato il tuo percorso di formazione?

"I poeti ermetici, gli autori latinoamericani, Marquez e Neruda, le avanguardie italiane del Novecento e i contemporanei americani. In particolare, amo leggere David Foster Wallace, perché mi fa sentire meno strana. Lui è riuscito a descrivere quello che io da sempre sento di avere dentro ma che non sono mai stata in grado di esprimere a parole".

Come descrivere in poche parole la figura del traduttore?

"Nessuno di noi si vede nello stesso modo. Per me il traduttore è un artigiano, non un artista. Questo implica esperienza e impegno costante. Non è ispirazione, ma lavoro duro e quotidiano".

Francesca Boccaletto

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