SCIENZA E RICERCA

Optogenetica: l'interruttore che spegne l'epilessia

Secondo alcuni è una tecnica che negli ultimi dieci anni sta rivoluzionando il mondo della neurobiologia. Nature Methods lo dichiarava Method of the year 2010: “grazie alla capacità di controllare il comportamento cellulare usando la luce e proteine sensibili alla luce geneticamente codificate, l’optogenetica ha aperto nuove strade alla sperimentazione in vari settori delle scienze biologiche”. A Padova è un gruppo di ricerca del dipartimento di Scienze biomediche e dell’Istituto di Neuroscienze del Consiglio nazionale delle nicerche, coordinati da Giorgio Carmignoto, a considerare le potenzialità dell’optogenetica nello studio di alcune patologie neurologiche, in particolare dell’epilessia.

“L’optogenetica – spiega Michele Sessolo del team – è utilizzata per analizzare i meccanismi di base di molte patologie neurologiche, ma rappresenta anche un sistema potenzialmente in grado di controllare le manifestazioni epilettiche. Certo va detto che in questo secondo caso la tecnica possiede ancora dei limiti”. In pratica si tratta di inserire nelle cellule nervose, servendosi di particelle virali opportunamente disattivate che fungono da “vetture di trasporto”, sequenze di Dna che inducono alla formazione in queste cellule di proteine sensibili alla luce, quali la rodopsina. Questi particolari tipi di proteine, opportunamente stimolati da fasci luminosi, consentono di attivare o bloccare l’attività elettrica di specifiche popolazioni di neuroni. Un po’ come accendere o spegnere i neuroni, a seconda dei casi, con degli “interruttori” molecolari. Proprio per questo l’optogenetica, tecnica messa a punto dal gruppo di Karl Deisseroth alla Stanford University in California ormai qualche tempo fa, è un metodo attualmente al vaglio nel trattamento dell’epilessia dato che la malattia, caratterizzata da ripetute crisi convulsive, è dovuta proprio a un’eccessiva attività elettrica in un numero elevato di neuroni.

Sono già stati realizzati ad esempio, anche se solo a livello sperimentale negli animali, sistemi che attivano la stimolazione optogenetica in modo automatico appena viene rilevata quell’attività cerebrale anomala che tipicamente precede una crisi epilettica. In questo modo la crisi viene bloccata sul nascere o interrotta. “Molto, tuttavia, rimane ancora da fare – sottolinea Carmignoto –. Resta ancora da capire come introdurre un virus senza provocare un’alterazione della normale fisiologia”. E si deve tener conto che per attivare le proteine fotosensibili è necessario introdurre un fascio di luce in strutture profonde del cervello attraverso impianti che richiedono interventi invasivi. “Certo – continua il ricercatore – di volta in volta, a seconda della situazione, si deve fare un bilancio dei vantaggi e degli svantaggi. È una valutazione che potrebbe essere applicata in alcune forme gravi di epilessia come la sindrome di Dravet dell’infanzia e l’epilessia focale del lobo temporale, spesso farmacoresistenti. Ma è ancora presto per discuterne”.  

Se non manca dunque qualche riserva sull’utilizzo dell’optogenetica come strumento terapeutico nell’epilessia, e più in generale sulla sua applicazione nel cervello dell’uomo, se ne riconosce invece l’importanza nella ricerca di base. “L’optogenetica oggi – argomenta Carmignoto – rappresenta un approccio che permette di stimolare o inibire selettivamente specifiche popolazioni di neuroni e specifiche aree per studi funzionali mirati. Ed è questo il punto focale”. Tutte le altre tecniche esistenti non consentono infatti una selettività della stimolazione, ma vanno a influenzare zone del tessuto cerebrale coinvolgendo in maniera indifferenziata sia neuroni eccitatori che neuroni inibitori. Ora invece è possibile esprimere la proteina fotosensibile solo nei neuroni che interessano e avere un controllo preciso della loro attività specifica.

Proprio utilizzando questa tecnica gli studiosi padovani sono giunti recentemente a un risultato importante che ha visto la pubblicazione su The Journal of Neuroscience. Dopo aver dimostrato qualche anno fa il ruolo attivo degli astrociti nelle scariche epilettiche, il gruppo di ricerca ha ora provato che una classe particolare di interneuroni del cervello, cioè quelli che producono una proteina detta parvalbumina, ha una funzione di rilievo nell’arginare una crisi epilettica: se la loro azione inibitoria viene meno, infatti, la scarica si può propagare ad ampie zone del cervello. A quel punto i ricercatori hanno voluto verificare, con tecniche di optogenetica, se fosse possibile attivare ulteriormente quegli specifici interneuroni per controllare l’ondata di eccitazione che caratterizza la crisi epilettica. E il risultato è stato positivo: stimolando infatti con la luce gli interneuroni, in cui erano state espresse le rodopsine (le proteine fotosensibili), le scariche epilettiche venivano bloccate. “Ora – spiega Sessolo – stiamo cercando di capire più di preciso quale sia il ruolo di questi interneuroni nella propagazione delle scariche epilettiche e come agiscano, dato che nel corso delle nostre ricerche siamo giunti a un risultato inatteso. Abbiamo scoperto infatti che in alcune particolari circostanze tali interneuroni anziché inibire la crisi possono addirittura favorirla”. E ciò rende necessario un approfondimento ulteriore, perché solo attraverso la comprensione dei meccanismi di base è possibile stabilire come intervenire e su quali bersagli andare ad agire con una eventuale futura terapia.

Monica Panetto

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