CULTURA

La Padova di Daverio, annegata nell’ego del suo autore

Cosa si attende uno spettatore del 2015 da un documentario su una città d’arte girato pochi mesi fa? Che riesca a raccontare luoghi, atmosfere, storie con un linguaggio contemporaneo. Che permetta, cioè, di familiarizzare con il patrimonio artistico di un territorio, e il suo contesto storico e sociale, senza offire l’impressione di trovarsi di fronte a un’operazione da paleontologia filmica, ma adeguando narrazione, scelte stilistiche, fotografia, montaggio all’occhio di un utente (e potenziale turista) bombardato ogni giorno da stimoli rapidi, di forte impatto emotivo ed estetico.

Philippe Daverio, popolarissimo divulgatore dell’arte in tv, ha realizzato un film (Padova città della comunicazione, regia di Mauro Raponi) in grado di promuovere la città del Santo e i suoi tesori presso un pubblico ampio, curioso ma non esperto, come quello che segue le trasmissioni del critico. Presentato in anteprima a giugno e replicato su grande schermo pochi giorni fa, il documentario è in attesa di incanalarsi nei circuiti commerciali: la prima televisiva dovrebbe essere su Rai 5 (data non definita), mentre il veicolo principale dovrebbe essere un dvd allegato a una pubblicazione. L’operazione nasce dunque con molte aspettative: la durata dell’opera è di circa un’ora; la cornice istituzionale in cui è stato presentato suggerisce un investimento nella pellicola come mezzo ufficiale di promozione turistica e culturale; la figura di Daverio dovrebbe, nel progetto del committente, garantire un lancio e una commercializzazione dell’opera adeguati.

Eppure, appena ci si accosta alla visione “daveriana” della città di Giotto e Galileo, ci si accorge di quanto il film non sia che un prodotto seriale, del tutto in linea con i format-tipo della consolidata “fabbrica Daverio”: in cui l’opera filmica si riduce ad appendice visiva rispetto al mattatore, la cui fisicità, gli sgargianti look da vecchio dandy, la voce roca, insieme autorevole e ironica, i testi limpidi e sintetici, arricchiti da ripetuti superlativi (“incredibile”, “folle”) e qualche battuta al momento giusto, fagocitano ogni tentativo di “fare cinema” nel senso di azzardare un benché minimo esperimento, un soggetto inconsueto, un’inquadratura sorprendente. Ogni film di Daverio è Daverio e basta: il resto è una successione di immagini, nemmeno troppo raffinate, al puro servizio della sua arguzia. La povertà tecnica di Padova città della comunicazione si esprime su tutti i piani, dai più elementari (la grafica dei titoli di testa e coda, degna degli sceneggiati anni Sessanta di Sandro Bolchi) alla banalità delle musiche, in prevalenza “greatest hits” della classica condannati in eterno a illustrare sequenze di marmi e fontane; dalla fotografia, priva di fulgore, al montaggio senza idee. Ci troviamo, insomma, catapultati all’indietro, a un linguaggio documentaristico ben precedente la prima serie di Quark: ed è un vero peccato, perché le scelte di Daverio (che pure dell’arte cittadina cancella quasi in toto interi capitoli, come l’architettura contemporanea) permetterebbero di valorizzare gioielli meno noti al grande pubblico su cui il documentario si sofferma, come l’opera di Gio Ponti, che poco prima del secondo conflitto mondiale reinventa i palazzi dell’Università di Padova arricchendoli di affreschi, arredi, elementi architettonici che ne fanno altrettanti emblemi del design novecentesco. Perfino il titolo, Padova città della comunicazione, è un trasandato prodotto seriale: senza preoccuparsi di immaginare un’etichetta un po’ meno burocratica, Daverio ha scelto come pretesto narrativo un sillogismo (Padova città degli affreschi / gli affreschi comunicano / Padova comunica) che potrebbe essere applicato a qualunque centro cittadino che non si trovi nel deserto texano ma nel cuore d’Europa.

E se, malgrado tutto, il film avesse successo e spingesse il turismo culturale padovano? Significherebbe che Daverio ha ragione: che l’"one man show” che il critico propone, applicandolo in forme precotte ai suoi oggetti d’indagine, funziona così com’è, e il “marchio Daverio” ha ormai più influenza di qualunque raffinatezza tecnica o narrativa. Rimane la forte perplessità di vedere, da un’operazione ambiziosa, scaturire un esito così di maniera; e viene da pensare che, con un budget ridotto e meno fanfara, tanto valesse riprendere per un’ora il critico d’arte monologante alternato a diapositive, liberando così, finalmente, la sua eloquenza ammaliatrice da orpelli visivi e sonori del tutto superflui.

Martino Periti

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