SOCIETÀ
Plebiscito 1866: un omaggio alla sovranità popolare
Una scheda elettorale del 1866 inviata per posta, vista l'impossibilità del votante di recarsi al seggio
Sul plebiscito del 21-22 ottobre 1866 non sono mancati i consueti revisionismi e le polemiche, allo scopo di presentare l’annessione del Veneto al Regno d’Italia come frutto di un inganno (“truffa” è il termine più usato) e di negare la volontà dei veneti di unirsi al resto della penisola. La partecipazione dei veneti alle vicende risorgimentali è dimostrata sia dalle cifre (circa 20.000 i volontari che attraversano il confine per combattere nel solo biennio 1859-60 e oltre 2.000 i processi per reati politici nelle province venete tra il 1859 e il 1866) che dalle testimonianze dell’epoca, comprese quelle meno di parte di delegati provinciali asburgici, diplomatici e viaggiatori stranieri.
Ad esempio, nel gennaio 1863 il delegato provinciale di Vicenza definisce tranquilli gli ultimi mesi, ma precisa che “le aspirazioni continuano ad essere rivolte verso il Piemonte, non sapendosi rinunciare al desiderio ed alla speranza che, in un tempo più o meno lungo, si uniscano ad esso anche queste Provincie”.
In realtà la volontà dei veneti, nelle vicende che portano all’annessione al Regno d’Italia, conta ben poco. La questione veneta non è una questione meramente locale o nazionale, ma europea e determinante è l’atteggiamento delle potenze europee, come Austria, Inghilterra, Prussia e Francia. In particolare è Napoleone III a guidare il gioco diplomatico. È lui che “crea” la questione veneta, con l’armistizio di Villafranca dell’11 luglio 1859, che porta alla liberazione della Lombardia ma non del Veneto, rimasto in mano austriaca. È sempre Napoleone che cerca di risolvere il problema veneto, per lui una vera e propria spina nel fianco, secondo quanto riferisce l’ambasciatore italiano a Parigi Costantino Nigra. La spina però va tolta con delicatezza, senza traumi eccessivi. Quindi via libera alle trattative diplomatiche con l’Austria, per una cessione pacifica del Veneto dietro un compenso territoriale o pecuniario, senza però nessuna guerra. Su questo il sovrano francese è categorico: se il governo italiano ha intenzione di prendere le armi contro l’Impero asburgico, lo farà “a suo rischio e pericolo”. E senza l’appoggio francese, il neonato Regno d’Italia può fare ben poco. La tanto sospirata guerra, che i patrioti veneti aspettano speranzosi a ogni primavera, si profila all’orizzonte solo nel 1866, grazie all’alleanza con la Prussia. Ma anche in questo caso Napoleone opera nell’ombra. Da un lato spinge il governo italiano all’accordo con la Prussia, dall’altro, non pensando alla possibilità di una vittoria tedesca, preme sull’Austria per risolvere una volta per tutte la questione veneta. Si arriva così al trattato segreto del 12 giugno 1866: in cambio della neutralità francese nella guerra e in caso di vittoria sulla Prussia, l’Austria avrebbe ceduto il Veneto alla Francia (pronta a consegnarlo all’Italia, come era accaduto nel 1859 con la Lombardia). Alla vigilia della terza guerra di indipendenza, la questione sembra risolta. L’Italia avrebbe ottenuto il Veneto sia in caso di vittoria della Prussia, per il trattato italo-prussiano, sia in caso di vittoria dell’Austria, per il trattato austro-francese. Né in questi trattati, né in quelli successivi si fa riferimento al plebiscito, che compare solo nel trattato di Vienna del 3 ottobre. Chi vuole quindi la consultazione popolare?
Secondo le testimonianze dell’epoca è Napoleone (al quale l’Austria ha ceduto il Veneto dopo la sconfitta di Sadowa) che vuole, anzi impone, il plebiscito. Ecco cosa scrive il patriota e letterato Carlo Leoni l’8 agosto 1866: “Gran discussione pel plebiscito che c’impone la Francia mentre si capitola a Vienna la cessione del Veneto”. Gli fa eco lo storico e docente all’università di Padova Andrea Gloria il 14 settembre: “Per comando dell’Imperatore Napoleone, a cui l’Austria ha ceduto le venete provincie, seguirà in queste il plebiscito”. Non è esattamente così. L’idea di ricorrere al voto popolare circola negli ambienti del governo italiano già nel maggio 1866. Dinanzi alla proposta austriaca di cedere il Veneto tramite la mediazione francese e in cambio della neutralità italiana nella guerra contro la Prussia, La Marmora informa Nigra che la Venezia doveva andare all’Italia «tramite un plebiscito degli abitanti e non tramite una cessione alla Francia". Il plebiscito si configura come l’alternativa all’umiliazione derivante dal ricevere il Veneto “in regalo” dalla Francia. In luglio l’ipotesi della mediazione francese si trasforma in realtà. Ecco quindi che il governo italiano presieduto da Ricasoli rispolvera l’idea del voto popolare, allo scopo di eliminare l’ingerenza francese, e il plebiscito viene inserito tra le condizioni proposte a Napoleone per accettare l’armistizio con l’Austria. Ma l’imperatore francese non ha nessuna intenzione di farsi da parte. Per lui il voto popolare non esclude affatto il suo ruolo di mediatore, ma è semplicemente un modo “per dare una soddisfazione al sentimento nazionale dell’Italia”. Il plebiscito perde quindi gran parte della sua importanza, rivelandosi un’arma diplomatica a doppio taglio. In settembre Ricasoli lo definisce un atto ridicolo e accessorio, Vittorio Emanuele II è irritato e vorrebbe evitarlo, i giornali veneti lo presentano non solo come una mera formalità, ma come un insulto nei confronti del patriottismo dei veneti, che in questo modo viene messo in dubbio (circolano addirittura voci di un possibile boicottaggio). Ma ormai il dado è tratto. Napoleone ha proposto il plebiscito in maniera ufficiale e la notizia è stata resa pubblica. Quindi non si può più evitare. Di necessità virtù. Ricasoli lo ribattezza come "la fonte del diritto nazionale e la base di legittimità della Monarchia italiana" e su questa linea si attesta anche la stampa veneta, che si mobilita in modo che il voto risulti favorevole all’annessione.
Dietro le vicende che portano all’unione del Veneto all’Italia si cela un lavorio diplomatico incessante, di cui ho illustrato qui solo alcuni tratti. Non bisogna però dimenticare che il ricorso al popolo, nel contesto dell’epoca, rappresenta un importante omaggio al principio della sovranità popolare, principio che come osservano i democratici bassanesi facenti capo alla redazione del Brenta, deve poi trasformarsi nell’”educazione popolare alla politica”.
Angela Maria Alberton