SOCIETÀ

L'Austria e quella bandierina di estrema destra nel cuore d'Europa

La destra più estrema ha piazzato un’altra bandiera nel cuore dell’Europa. Stavolta è accaduto in Austria, dove il Partito della Libertà (FPÖ, dal tedesco Freiheitliche Partei Österreichs) è riuscito a vincere di misura le elezioni nazionali, sfiorando il 30% dei consensi, e ad accreditarsi come forza trainante del paese. Peccato che nessuno, tra gli altri partiti che si sono presentati al voto, abbia la minima intenzione di allearsi con una formazione di chiara ispirazione nazista, fondata nel 1956 da ex membri delle Schutzstaffel, le famigerate SS, il gruppo paramilitare guidato da Heinrich Himmler. L’attuale leader dell’FPÖ è Herbert Kickl, 55 anni, introverso e controverso, tanto schivo quanto radicale nelle sue affermazioni, per anni nelle retrovie del partito (scriveva i discorsi per Jörg Heider, l’ex leader della Carinzia, oltre che presidente dell’FPÖ dal 1986 al 2000, morto in un incidente stradale nel 2008), e che invece oggi nel partito viene salutato addirittura con l’appellativo di Volkskanzler (“cancelliere del popolo”), come i nazisti chiamavano Adolf Hitler. Il che svela la natura delle reali aspettative cresciute negli anni tra i fedelissimi: che Kickl punta davvero a fare il cancelliere, prima o poi; e che quel passato non è poi così passato. Che l’ideologia nazista, alla vigilia degli ottant’anni dalla rovinosa caduta del Führer (austriaco di nascita) può essere ancora riproposta, pur aggiornata ai tempi nostri. Herbert Kickl incarna tutti gli stereotipi della destra populista di quest’epoca: è smaccatamente razzista, xenofobo, omofobo, adora Putin e Orban (Salvini ha esultato per la sua vittoria e l’ha invitato al raduno sovranista che si terrà a Pontida domenica prossima), mentre teorizza, al pari dei cugini tedeschi di Alternative für Deutschland (che stanno facendo il pieno di consensi alle elezioni statali in Germania), la “remigrazione” degli stranieri indesiderati, deportandoli senza troppi convenevoli nel loro paese d’origine, anche se come e con quali costi, nel dettaglio, non è ancora dato sapere.

Costruire una “Fortezza anti-immigrati”

L’obiettivo di Kickl è semplice e chiaro, come ha ribadito in chiusura della sua campagna elettorale: vuole costruire la “Fortezza Austria”, agitando in maniera anche scomposta lo spettro dell’emergenza sicurezza (un tema assai caro a tutti i partiti di estrema destra europei, che lo applicano quasi in fotocopia) perché «siamo sotto la minaccia degli immigrati stranieri». L’FPÖ, che ritiene l’immigrazione «un gigantesco problema di sicurezza, perché stiamo portando l’islamizzazione nel paese» e che perciò punta all’obiettivo diritto di asilo pari a zero, ha perfino nominato un suo “portavoce della sicurezza”, Hannes Amesbauer, che riassume così la faccenda: «Negli ultimi cinque anni, ci sono state in media 340 denunce al giorno contro gli stranieri, tra accoltellamenti, guerre tra bande, islamismo e minacce terroristiche». Secondo l’FPÖ il fatto che in Austria l’allerta terrorismo sia passata l’anno scorso al livello 4 «è dovuto esclusivamente all’immigrazione» (mentre in realtà la causa è l’escalation del conflitto in Medio Oriente). «Ed è per questo che la “Fortezza” non è nulla di cui aver paura - conclude Amesbauer -. Chiunque può uscire in qualsiasi momento: ma anche noi, come abitanti della “Fortezza”, possiamo decidere quando tirare su il ponte levatoio». Un austriaco su tre ha deciso di dar fiducia a questo partito. «Oggi gli elettori hanno puntato i piedi», ha esultato a caldo Herbert Kickl. «È evidente che le cose dovranno cambiare in questo paese».

Eppure la strada resta in salita per i post-nazisti austriaci: in vista non ci sono possibili alleanze, nonostante il corteggiamento serrato all’ÖVP (il Partito Popolare austriaco, Österreichische Volkspartei), alla guida dell’esecutivo uscente con il cancelliere Karl Nehammer, che ha ottenuto il 26,3% dei voti, con un crollo di oltre 11 punti. «È impossibile formare un governo con qualcuno che adora le teorie del complotto», ha tagliato corto Nehammer, che probabilmente tenterà di formare il prossimo governo di coalizione con i Socialdemocratici (SPÖ, al 21%), i Liberali (Neos, 9,2%)  e i Verdi (8,3%). Nel 2017 era stata anche tentata un’alleanza tra ÖVP e FPÖ (cancelliere il popolare Sebastian Kurz, Herbert Kickl ministro dell’Interno), ma il governo era caduto due anni dopo per via dello scandalo “Ibizagate”, che aveva travolto l’allora leader del partito di estrema destra, Heinz-Christian Strache, condannato per corruzione. Da allora per il Partito della Libertà è stato un lento ma progressivo recupero di posizioni e di credibilità nell’elettorato austriaco, abile a sfruttare le difficoltà economiche nazionali, la disoccupazione in crescita, il costo della vita sempre più elevato, cavalcando l’esasperazione di chi non riesce ad arrivare a fine mese, mentre cresce anche la percentuale di popolazione con un background migratorio (circa il 27% del totale, secondo quanto certificato dall’Istituto nazionale di Statistica), il che alimenta l’insofferenza dei populisti di estrema destra. Anche Andreas Babler, leader del Partito Socialdemocratico di sinistra, ha chiuso qualsiasi remota ipotesi di collaborazione con l’FPÖ, quando ha detto a Kickl, durante un dibattito televisivo: «Penso che tu sia estremamente pericoloso».

Il problema delle alleanze

Per tutto ciò è assai probabile che gli estremisti di destra resteranno fuori dal governo. Ora la parola passerà al Presidente federale Alexander Van der Bellen, che ha il compito di nominare il cancelliere e incaricarlo di formare il nuovo governo. Prassi vuole che l’incarico sia affidato al leader del partito che ha vinto le elezioni, ma il Capo dello Stato ha già fatto sapere che non avrebbe nominato un leader «antieuropeo o con posizioni non dichiaratamente di condanna verso la guerra della Russia contro l’Ucraina»: non ha pronunciato il nome di Herbert Kickl, ma il senso era quello. «Farò in modo - ha poi scritto in un post su X il presidente Van der Bellen - che i fondamenti della nostra democrazia liberale siano rispettati quando si forma un governo: lo stato di diritto, la separazione dei poteri, i diritti umani e delle minoranze, i media indipendenti e l’appartenenza all’Ue». Per l’FPÖ un portone sbarrato a doppia mandata, almeno per ora. Ma è sul quel quasi 30% appena conquistato (con un’affluenza importante, superiore al 77%) che i nazi-populisti potranno edificare la loro azione politica per i prossimi anni. E accreditarsi comunque come consolidata realtà per il movimento dell’estrema destra populista europea.

La regola del 30 per cento

Le elezioni austriache hanno comunque confermato la tendenza del 30%: punto più, punto meno, è quel che i partiti populisti di estrema destra valgono, oggi, nelle più importanti nazioni d’Europa: dalla Germania (AfD) all’Italia (Fratelli d’Italia), fino alla Francia (il Rassemblement National di Marine Le Pen). Un gradino più sotto, in quanto a preferenze, il Partito della Libertà (PVV) del “Donald Trump olandese” Geert Wilders, che dopo aver vinto le elezioni nei Paesi Bassi con il 23% di consensi è entrato a far parte del governo guidato dall’ex capo dei servizi segreti olandesi, Dick Schoof. Per non parlare della ormai consolidata presa di Victor Orbàn sul governo ungherese e di quella più recente di Robert Fico in Slovacchia. Oggi l’estrema destra ha una presenza, più o meno di peso, in dieci nazioni europee su ventisette: Italia, Ungheria, Paesi Bassi, Lussemburgo, Svezia, Finlandia, Croazia, Lituania, Slovacchia e Grecia. In Portogallo la formazione populista Chega ha quadruplicato i suoi seggi (da 12 a 50) nelle ultime elezioni dello scorso marzo, ma è rimasta fuori dal governo guidato dal conservatore Luis Montenegro, che pur di non apparentarsi formalmente con l’estrema destra ha preferito varare un fragile governo di minoranza, che però di fatto dipende dai voti dei parlamentari di Chega. Mentre in Francia e in Germania, i due “pesi massimi” dell’Unione Europea, il trend di crescita appare inarrestabile. Il che rende verosimile che da qui a breve la destra, più o meno estrema, possa arrivare a conquistare una presenza all’interno dei governi nella maggioranza dei paesi europei.

Una “conquista del potere” resa possibile non tanto per la dimensione del gradimento elettorale dei partiti populisti di estrema destra (nel migliore dei casi il 30%, più spesso verso il 20%, come nei paesi scandinavi), quanto per il contemporaneo dissolvimento degli altri partiti, dal centro alla sinistra. Il che, sommato ai sempre più alti livelli di astensione, rende spesso quel 30% sufficiente per assumere la guida dell’esecutivo di turno, sempre ammesso che si trovi qualche formazione minore con cui allearsi (ma gli esempi non mancano). Interessante al proposito l’analisi espressa su Politico da Daniel Kelemen, docente di diritto e di scienze politiche alla McCourt School of Public Policy della Georgetown University: “La vittoria elettorale austriaca dimostra che la tendenza verso partiti radicali, autoritari e filo-russi che entrano nei governi dell’Unione Europea non è affatto limitata all’Ungheria. L’UE è vulnerabile all’infiltrazione e all’estorsione da parte di regimi “cavallo di” che servono gli interessi dei suoi avversari strategici, come Vladimir Putin. A causa del potere dei governi nazionali nella struttura dell’UE, l’Unione nel suo insieme può deragliare quando un governo membro passa sotto il controllo di un partito come questo”.

Infine è da segnalare l’ultimo rapporto pubblicato dal Consiglio Europeo per le Relazioni Estere (Ecfr) e dalla Fondazione Culturale Europea (Ecf) dal quale emerge come l’identità europea sia “sempre più etnocentrica e xenofoba”. Lo studio, titolato provocatoriamente “Welcome to Barbieland” (perché, come scrivono gli autori, “l’UE è un luogo incline a considerarsi più perfetto di quanto non sia in realtà”) evidenzia tre principali situazioni di criticità, tre “punti ciechi”: la predominanza di “bianchezza” nella politica dell’Ue (vale a dire la scarsa partecipazione in Europa di gruppi come gli europei non bianchi e i musulmani), il limitato coinvolgimento dei più giovani, e un sempre più debole sostegno europeista nell’Europa centrale e orientale. «La combinazione di questi fattori potrebbe erodere o alterare profondamente il sentimento di appartenenza europea». Si legge inoltre nel documento: «I cittadini più giovani d’Europa - in generale, quelli di età inferiore ai 35 anni - mostrano segni di non essere convinti dell’UE di oggi. Nonostante siano, in media, più pro-europei e tolleranti sulle questioni sociali rispetto alle generazioni più anziane, molti giovani europei non si sono recati alle urne e, quando lo hanno fatto, hanno spesso optato per alternative di estrema destra o anti-establishment. La domanda qui è se la xenofobia, sempre più normalizzata nell’UE, non stia allontanando alcuni giovani dal progetto europeo, mentre allo stesso tempo sta abituando altri a una concezione “etnica” dell’europeità – e quindi facilitando il loro percorso verso il sostegno all’estrema destra».

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