SOCIETÀ

Rifare la democrazia: sì, ma come?

La democrazia rappresentativa non funziona più. Non c‘è solo l’Italia a sentirsi lontana dalla politica, e a disprezzare i politici, anche la Francia si pone il problema delle istituzioni e del loro rapporto con i cittadini. Venerdì 2 ottobre viene presentato un rapporto dell’Assemblea nazionale, intitolato “Rifare la democrazia”, frutto del lavoro di una commissione di 23 membri tra cui il presidente della Camera, Claude Bartolone, e lo storico Michel Winock.

L’analisi parte dalla constatazione che i cittadini europei votano sempre meno, un segnale che considerano inutili elezioni dove competono partiti che poi faranno la stessa politica: un tema già introdotto nel 1995 da Richard Katz e Peter Mair in un articolo sui cosiddetti “partiti-cartello” e poi approfondito da Mair, un politologo irlandese scomparso nel 2011, nel suo libro Ruling the Void. Del resto, negli ultimi 15 anni si sono moltiplicati i paesi dove sono al governo grandi coalizioni, prima di tutto la Germania dove Angela Merkel ha come vice il leader socialdemocratico Sigmar Gabriel. 

Il malcontento dei cittadini, la sensazione di “non contare”, di non essere ascoltati, sono anche il tema del nuovo libro di Pierre Rosanvallon, Le bon gouvernement, dove lo studioso francese non esita a iniziare la sua analisi scrivendo “I nostri regimi possono essere detti democratici ma non siamo governati democraticamente”. Perché “non democraticamente”? Perché con l’accentramento dei poteri nei governi a scapito dei parlamenti si è creato un “deficit di democrazia” (si pensi solo all’Italia dove in pratica Camera e Senato si limitano a ratificare decreti legge o a sfornare leggi-delega che demandano all’esecutivo tutti i dettagli delle decisioni). Il deficit democratico, secondo Rosanvallon, si manifesta in “ministri che non si assumono le loro responsabilità, dirigenti che mentono impunemente, un mondo politico che vive in  un acquario e non rende conto a nessuno, un funzionamento amministrativo opaco”.

Questi mali, riconosciuti dalla commissione Bartolone-Winock, hanno però prodotto 17 proposte di riforma piuttosto modeste, alcune simili a quelle in discussione in Italia come la riduzione del numero dei parlamentari: da 577 a 400 i deputati e da 348 a 200 i senatori. Le proposte principali della commissione vanno nel senso di rafforzare il ruolo del parlamento francese (storicamente subordinato a un esecutivo forte guidato dal presidente eletto direttamente dal popolo) per esempio dando ai deputati un maggior potere di presentare emendamenti ai progetti di legge. Un aspetto su cui la commissione si è divisa è sull’introduzione della proporzionale, che aumenterebbe la rappresentatività del parlamento (oggi la Francia ha un sistema elettorale a due turni, quindi fortemente maggioritario) ma viene considerata da molti una fonte di possibile instabilità politica.

In un sistema presidenziale come quello francese era inevitabile che la commissione si concentrasse sul ruolo del presidente della Repubblica, oggi dotato di poteri quasi monarchici, mentre il primo ministro di fatto non è che un suo collaboratore, tranne nei rari casi in cui è espressione di una maggioranza diversa da quella che ha eletto il presidente. Per evitare il fenomeno della “campagna elettorale permanente”, la commissione propone di eleggere il presidente per 7 anni, non rinnovabili. Un’idea che tuttavia non sembra riscuotere molti consensi.

Malgrado la commissione abbia lavorato a lungo e con una certa profondità, i risultati appaiono deludenti, o comunque non in grado di migliorare il rapporto tra cittadini e istituzioni, per una ragione semplice e inconfessabile: la crisi delle democrazie europee è strettamente legata alla perdita di poteri degli stati nazionali. Mentre permane la mitologia della sovranità popolare, con tutti i suoi orpelli, negli ultimi 40 anni c’è stata una progressiva cessione delle funzioni di regolazione dell’economia a entità private (i mercati finanziari) o a istituzioni sovranazionali (l’Unione Europea). Questo ha svuotato le possibilità di intervento degli stati, oggi quasi impossibilitati a fare politiche economiche che attenuino le sofferenze dei cittadini, in particolare durante e dopo le crisi economiche come quella del 2008. Il malessere, il rifiuto della politica, l’astensione, il voto per partiti xenofobi sono il risultato di una rinuncia delle democrazie a combattere le disuguaglianze e a mettere al primo posto il benessere dei cittadini. Non saranno gli aggiustamenti cosmetici del funzionamento istituzionale a mettere rimedio a un problema così fondamentale.

Fabrizio Tonello

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