CULTURA

Quella rivoluzione di cui lo Zar non si accorse

“Una rivoluzione era iniziata nel cuore del suo immenso impero e Nicola II non se n’era nemmeno accorto”, così inizia l’eccellente sintesi sui fatti dell’ottobre del 1917 dello storico spagnolo dell’università di Zaragoza Julián Casanova, che è riuscito, in 200 pagine nel suo La venganza de los siervos. Rusia 1917 (Editorial Planeta, Barcelona 2017), a raccontare uno degli eventi che hanno segnato il secolo scorso. Intrecciando rigore storico e comunicatività (un tratto che lo storico condivide con la storiografia sulla rivoluzione russa di lingua inglese che negli ultimi trent’anni ha sfornato testi di livello notevole), Casanova è riuscito a scrivere una sintesi che riesce ad equilibrare in modo brillante le cause storiche, sociali e politiche della rivoluzione bolscevica.

La crisi dell’autocrazia zarista, il ruolo decisivo dell’ingresso della Russia nella Grande Guerra che innescò la dissoluzione repentina dello zarismo, l’immobilità politica di un paese che non riusciva a modernizzarsi e quindi a risolvere le gigantesche contraddizioni sociali, il proliferare di dottrine rivoluzionarie che alla fine risultarono più persuasive di quell’intellighenzia borghese che auspicava una evoluzione in senso liberale dell’impero. Secondo Casanova la rivoluzione russa fu in realtà un caleidoscopio de revoluciones, nessun aspetto della realtà russa rimase intatto. Le città e le loro fabbriche, le campagne, l’esercito, le realtà nazionali dell’impero russo, le donne, la religione e l’economia… In pochi anni tutto fu percorso da trasformazioni radicali. Casanova ricorda le parole dello scrittore Kostantin Pautovskji che dalla cittadina di Yefrémov scriveva: “Qui in questa piccola città soporifera nulla era mai successo in tre secoli… ed ecco arrivare la rivoluzione”.

Rispetto a più anodini titoli di libri come quello di Angelo D’Orsi 1917. L’anno della rivoluzione o quello Guido Carpi Russia 1917. Un anno rivoluzionario, quello bellissimo di Casanova, La vendetta dei servi, ha il merito di indicare il filo interpretativo dei fatti del 1917: un cataclisma sociale senza precedenti che portò, all’inizio senza precisa direzione politica, al capovolgimento di ogni autorità dell’impero di Nicola II, una rivoluzione dal basso che mise definitivamente in luce la crisi dell’autocrazia zarista e di tutte quelle che – rappresentandole – Orlando Figes (in Revolutionary Russia, 1891-1991, uscito per Penguin nel 2014) ha definito “figures of authority”. Scrive lo storico spagnolo: “L’abdicazione dello zar e dell’autorità imperiale prima indebolì e poi dissolse tutti i poteri tradizionali di coercizione e repressione – polizia, tribunali, esercito – attraverso il quale lo Stato e i proprietari terrieri controllavano i contadini”.

Ma il racconto della rivoluzione russa è attraversato anche dal rilievo dato alle personalità, comprese quelle minori, còlte attraverso citazioni strategiche e rappresentative. Il principe L’vov, primo capo del governo provvisorio dopo la fine dello zarismo, membro di una delle famiglie di più antica nobiltà russa, che scriverà di non sapere nulla della miserabile condizione dei suoi contadini e di conoscere le sue terre della provincia di Tula (a quasi 200 km da Mosca) così come conosceva l’Africa centrale, cioè per niente e, infine, confesserà che la “vendetta dei servi” era la risposta a secoli di sfruttamento da parte dei nobili; Nicola II che concepiva la Russia come un latifondo di cui il proprietario era lo zar, l’amministratore la nobiltà e i lavoratori i contadini; la zarina Alessandra che scrive, in una lettera a Nicola II del 14 dicembre 1916, che manderebbe in Siberia tutta l’intellighenzia liberale; Lenin e il suo disprezzo per la democrazia parlamentare in nome del «potere dei soviet, nato dall’elezione diretta dei lavoratori».

Un cenno a parte merita la poco nota, rispetto per esempio ad Alessandra Kollontaj, Maria Spiridònova dei socialrivoluzionari di sinistra, torturata per terrorismo dall’Ochrana zarista, deportata in Siberia e che, liberata durante la rivoluzione di febbraio, diventò in seguito, nel novembre del 1917, la candidata del suo partito alla presidenza assemblea costituente. Quando Lenin decapitò i vertici del partito venne arrestata e deportata di nuovo in Siberia dai bolscevichi: morirà fucilata nel 1941, esempio, scrive Casanova, di “rivoluzionari che furono divorati dalla propria rivoluzione o dallo Stato che da quella nacque”.

Forse le pagine più efficaci del libro sono quelle dedicate ai giorni di febbraio. Il 23 febbraio (l’8 marzo per il calendario occidentale), la Russia è al terzo anno di guerra, la protesta per la mancanza di pane di migliaia di donne e operai si trasformò in una insurrezione che l’esercito non soffocò nel sangue come nel 1905, anzi i soldati si unirono agli insorti che dilagarono. Nel giro di pochi giorni Pietroburgo divenne irriconoscibile: caserme e posti di polizia vengono assaltati; simboli dello zarismo come statue e stemmi vengono distrutti; dalle prigioni vengono liberati i detenuti (come capitò alla fortezza di Pietro e Paolo, peraltro con una manciata di prigionieri politici). Da Pietroburgo, dopo l’inaspettata abdicazione dello zar, il 2 marzo l’insurrezione si diffuse rapidamente nelle campagne e nelle città dell’impero, scrisse Bulgakov, in quel capolavoro che è La guardia bianca, che “la Russia avvampò come un cero”.

La lettura da parte di Casanova della rivoluzione di febbraio è quella di un movimento che per quanto spontaneo rivelava insospettate capacità di organizzazione e di azioni collettive dirette da operai, soldati e contadini (e questi ultimi escono fuori dal cliché di passività nel quale molta storiografia li ha incorniciati), la democrazia rivoluzionaria nella forma dei soviet fu uno dei momenti decisivi della prima fase della rivoluzione russa. Solo in seguito i partiti presero il controllo della rivoluzione fino all’ottobre del 1917, quando la situazione politica si semplificò: «quello che era iniziato a febbraio con le proteste della popolazione contro l’inflazione e la mancanza di pane, si era trasformato solo otto mesi dopo in una rivoluzione sociale, estesa alle campagne, alle fabbriche, al fronte e ai popoli non russi dell’impero, all’insurrezione mancava qualcuno che sapesse riempire il vuoto di potere che stava lasciando il fallimento del governo di Kerenskij. Si era aperta la strada per un partito rivoluzionario contrario alla guerra. E qui apparvero i bolscevichi. E Lenin”.

Sebastiano Leotta

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