SOCIETÀ

Russia, il colosso fragile al bivio

Entro vent’anni la Russia farà parte dell’Unione europea. È la provocazione di Vladimir Popov, della New Economic School di Mosca, intervenuto a un convegno padovano che faceva il punto sulla complessa situazione a Est dell’Europa. Il motivo, secondo lo studioso russo, risiede nella teoria gravitazionale del commercio internazionale, che vuole che un paese venga attratto nell’orbita delle economie più grosse a lui vicine. E se da un lato la maggior parte del territorio e delle risorse russe si trovano a est degli Urali, rendendo l’Asia lo sbocco economico e geopolitico naturale, dall’altro il partner commerciale principale resta comunque l’Europa, che assorbe quasi metà delle esportazioni russe. 

Affermazioni impegnative, alla vigilia del 2016, quando ricorreranno i 25 anni dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica. La Russia ci arriva dopo 15 anni di leadership putiniana e concludendo il primo anno di attività dell’Unione economica eurasiatica (Uee), nata il 1 gennaio 2015, che comprende Armenia, Bielorussia, Kazakhstan, Kirghizistan e – appunto – Federazione russa. Un’unione ancora fragile, a sentire i problemi e le insoddisfazioni che agitano i paesi membri. Problemi dovuti – secondo alcuni analisti – alla sproporzione delle forze in gioco: nata sulla scorta dell’esperienza europea, vede però aggregarsi paesi ed economie di peso molto diverso (con la Russia che da sola copre l’80% del potenziale economico Uee), con il pesce grosso che mangia come sempre il pesce piccolo, che non può non domandarsi quindi quali alleanze siano realmente più favorevoli. E il legame che cementa l’Unione è finora solo commerciale, senza una reale integrazione economica: per molti un ulteriore motivo di fragilità.

Che una dose di insoddisfazione esista, traspare anche nella lunga intervista che il presidente della commissione dell’Unione, Viktor Christenko, ha concesso in questi giorni alla Rossijskaja gazeta, riportata con grande enfasi sul sito della Uee. Anche se Christenko – russo, con trascorsi da vicepremier e ministro dell’industria – sta nella parte, da un lato minimizzando, dall’altro cercando di riportare i problemi in una prospettiva di lungo periodo. A chi accusa il nuovo organismo di essere una resurrezione dell’Urss oppone infatti il “processo iper-democratico che risiede nella formazione dell’Unione”. Liquida le paure dei paesi più piccoli di risentire dell’attuale recessione russa, ribadendo che in realtà ne avrebbero risentito comunque. Piuttosto, sottolinea la “generosità” della Russia, che ha “accettato il rischio di trasferire di fatto [alla Uee] il diritto di prendere decisioni relative alla sua stessa economia” precisando che  ogni provvedimento dell’Unione viene adottato a livello sovranazionale dalla commissione, in cui i paesi “sono ugualmente rappresentati”. 

Di fatto l’Unione avanza: ha infatti già incassato un accordo con il Vietnam per una zona di libero scambio, a cui sono interessati anche Israele, India, Egitto e Iran, mentre sono in corso trattative con altri aspiranti paesi membri. E nonostante le sollecitazioni di Putin nei mesi scorsi, la regola d’oro resta “camminare e non correre”, con l’orizzonte temporale per l’unione monetaria fissato al 2025. 

Partner ingombrante, aspirante impero, colosso ancora troppo fragile: la Russia cerca faticosamente il suo ruolo. A est dell’Europa molto si muove e l’Unione euroasiatica non è l’unica alleanza in cui la Federazione è attivamente impegnata. A Zhengzhou si sono appena riuniti per la quattordicesima volta premier e capi di stato dei paesi aderenti alla Sco - Shanghai Cooperation Organization, il blocco di cooperazione a leadership russo-cinese a cui aderiscono anche Kazakistan, Kyrgyzstan, Tajikistan e Uzbekistan, insieme a un certo numero di paesi osservatori e partner di dialogo; organismo a cui si aggiungono il gruppo Ric (il triangolo strategico Russia-India-Cina che da oltre un decennio vede summit periodici in cui si discute di politica internazionale e si negozia su agricoltura, sanità, educazione, energia, tecnologia, ambiente) e la neonata Via della seta, il colossale progetto infrastrutturale che collegherà la Cina all’Europa, transitando per l’Asia centrale e quindi per buona parte dei paesi ex-sovietici, Russia inclusa.

De resto i media nazionali russi – solitamente sensibili alla linea ufficiale del governo – continuano a insistere sulla “svolta a Est” come la soluzione di tutti i problemi economici. L’Europa quindi non sembrerebbe esattamente in cima alle priorità russe, ma le parole di Popov (che ricordava anche gli aspetti profondamente europei della cultura russa) e di alcuni analisti – che rievocano l’eterna querelle tra slavofili e occidentalisti – paiono indicare il contrario. Così come emerge in una recente, intrigante riflessione, pubblicata dal Centro Levada (tra le più accreditate agenzie russe di sondaggi) in cui perfino negli attuali sentimenti popolari di inimicizia e diffidenza verso l’Europa si legge l’ennesima versione di una storica dipendenza culturale dai vicini occidentali. 

A un quarto di secolo dalla fine dell’impero sovietico, insomma, l’immagine che sembra emergere è quella di una Russia ancora incerta nel ridefinire la sua identità forse ancora prima del suo ruolo. Ma si tratta di un’incertezza solo apparente. Ancora tre anni fa, in un colloquio ai margini di un altro convegno padovano, Oleg Barabanov, tra i consulenti politici dell’amministrazione Putin, ragionava con tranquillità e senso pratico della verità descritta dallo stesso stemma della Russia: un’aquila a due teste, una che guarda a ovest, l’altra a est – inevitabile quindi, affermava, impegnarsi politicamente ed economicamente in entrambe le direzioni. Parole echeggiate adesso da Christenko, pronto al dialogo con l’Unione europea e convinto che non possono esistere alternative alla cooperazione, e a rinnovate formule di cooperazione. Con l’Unione euroasiatica pronta anche “alla creazione di uno spazio economico comune dall’Atlantico al Pacifico”. Iperdemocratico, naturalmente.

Cristina Gottardi

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