CULTURA

Scienziati e nazismo, il patto col diavolo

Quando si parla del nazismo, in particolare delle belve delle SS, si pensa spesso ai guardiani dei campi di concentramento e di sterminio nazisti, ai bruti esecutori degli ordini di Hitler e di Himmler pronti a realizzare la visione politica dei loro capi, cioè il predominio di quella “razza ariana” nella quale veniva compresa la maggioranza del popolo tedesco, quella parte considerata “razzialmente sana”. Non bisogna però dimenticare che tra i sostenitori del regime nazionalsocialista ci fu anche una buona parte dell’élite tedesca dell’epoca, che vantava un’educazione accademica coronata normalmente da un dottorato o addirittura una carriera universitaria o di ricercatore (i laureati all’epoca costituivano una piccolissima parte della popolazione, visto il difficile accesso alla maturità liceale).

Basta fare un paio di esempi: il primo riguarda un personaggio come Eberhardt Bethge, allievo di Dietrich Bonhoeffer, esponente della Chiesa protestante antinazista. Durante il suo servizio militare, che lo portò in Italia, Bethge salvò una parte delle lettere di Bonhoeffer. Allo stesso tempo però serviva come ufficiale della Abwehr, il controspionaggio, e il suo reparto di stanza nell’Emilia aveva anche il compito di interrogare – e probabilmente anche di torturare – i partigiani catturati. Possiamo citare anche altri esempi, come quello di uno storico dell’arte esperto di chiese medioevali in Toscana che fu impiegato come interprete in un reparto che doveva individuare e catturare i partigiani. Per non parlare degli scienziati coinvolti, come membri delle Einsatzgruppen, nello sterminio immediato, mediante fucilazione, della popolazione ebraica e dei “partigiani” russi nell’Unione sovietica dopo l’invasione tedesca nel giugno 1941.

Ci furono poi anche gli scienziati che, pur non essendo mandati direttamente a combattere, furono attivi “al fronte dei laboratori”. Mentre le università venivano organizzate in base al “principio del capo” (Führerprinzip), con i magnifici rettori nel ruolo di Führer delle loro realtà accademiche, con una particolare attenzione all’insegnamento, il top degli scienziati tedeschi si trovò a lavorare in particolare nei più di 50 istituti di ricerca scientifici che facevano capo alla Kaiser-Wilhelm-Gesellschaft (“Società Imperatore Guglielmo”), un’organizzazione creata prima della Grande guerra per la promozione della scienza. 

Dall’avvento del nazismo in poi gli scienziati non vissero dunque su un’isola felice, in cui occuparsi solo di scienza e ricerca lontani dall’ideologia e dalla politica nazista. Con la guerra dovettero dimostrare il loro contributo alla vittoria, rischiando in caso contrario di essere inviati al fronte come soldati. Tra loro ci furono inoltre anche dei sostenitori convinti del regime, soprattutto i fautori di una politica di “igiene razziale” intesa a plasmare il “corpo della nazione” secondo i criteri della loro “scienza”. La quale prevedeva in particolare la prevenzione di alcune malattie ereditarie, ma allo stesso tempo contemplava anche considerazioni sull’eliminazione fisica di persone nate con difetti congeniti, avanzate già alla fine dell’Ottocento.

Non sorprende perciò che durante gli anni del nazismo alcuni gruppi di laureati furono particolarmente politicizzati: tra i medici, per esempio, quasi la metà si iscrisse al partito nazionalsocialista, e una parte dei medici e degli psichiatri fu coinvolta non soltanto nelle perizie statali e nelle sentenze giuridiche sullo stato “razzialmente” o “ereditariamente sano” dei loro esaminandi tedeschi, ma anche nella sterilizzazione forzata dei 400 mila tedeschi considerati persone geneticamente o moralmente “non sane”, così come alcuni medici furono gli esecutori materiali del programma di eutanasia nei confronti dei “malati mentali incurabili”. Non dimentichiamo però che anche le scienze umanistiche furono coinvolte in un’intensa attività di propaganda culturale all’estero, il cosiddetto “impiego bellico dell’umanistica”. Così come i geografi e gli storici contribuirono ai progetti di allargamento del territorio tedesco, il nuovo “spazio vitale”. 

Sin dal processo di Norimberga il comportamento degli scienziati durante il Terzo Reich è stato oggetto di ricostruzioni ma anche di giustificazioni, in primis da parte degli stessi protagonisti. L’accusa del tribunale militare internazionale al contrario sostenne che una parte degli scienziati fossero stati volenterosi carnefici al servizio del regime nazista. Chi aveva ragione? Gli scienziati tedeschi furono succubi del regime o strinsero davvero un patto col diavolo? Furono costretti o si vendettero per la carriera e per aumentare la loro fama? Esaminando i documenti e le testimonianze dell’epoca emerge una situazione variegata. Molti studiosi erano convinti dell’impoliticità dell’attività di ricerca e quindi si sentivano al servizio della scienza piuttosto che di Hitler. Altri erano convinti che scienza e nazismo marciassero nella stessa direzione. Anche quando tutti gli scienziati di origine ebraica o politicamente democratici e/o liberali furono espulsi dalle loro posizioni di lavoro, non si levò alcun grido di protesta. Pochi emigrarono all’estero per rifiutarsi di contribuire in qualche modo al successo del regime. Furono invece molti più i casi in cui ci fu una vera e propria mancanza di freni inibitori da parte degli studiosi, dovuta a una concezione della scienza come radicalmente separata dall’etica e dalla politica. La maggior parte dei ricercatori non eseguiva ordini ma lavorava a pieno ritmo e con impegno personale per risolvere problemi, e semplicemente ritenne di continuare a farlo anche con il nuovo regime. Così alla fine della guerra in alcuni settori, per esempio nella ricerca sull’aerodinamica a velocità ultrasoniche, gli scienziati tedeschi arrivarono ad essere tra i primi al mondo.  

Un esempio particolarmente importante è la via tedesca verso la bomba nucleare. Dopo la scoperta della fissione dell’atomo nel 1939, gli scienziati tedeschi si affrettarono per sviluppare i possibili usi tecnici della nuova invenzione, tra cui anche gli ordigni nucleari. E verso la fine della guerra uno dei team, quello del laboratorio militare di Gottow, riuscì addirittura a sviluppare e sperimentare una bomba nucleare. Per nostra fortuna la bomba tedesca non arrivò neanche lontanamente a una potenza simile a quella di Hiroshima, e perciò il programma nucleare nazista non permise a Hitler di dare l’agognata svolta alla guerra.

Che ruolo hanno giocato gli scienziati tedeschi in questa come in altre vicende? Proprio per indagare questi aspetti sono preziosi ampi programmi di ricerca come quello sulla storia degli istituti della Kaiser-Wilhelm-Gesellschaft nel Terzo Reich, coordinato da Reinhard Rürup e Wolfgang Schieder, che attraverso un’équipe di esperti ha prodotto un’ampia storiografia. Nel tentativo, a oltre 70 anni dalla vicenda, di  affrontare un nodo ancora difficile da sciogliere: quello dell’effettivo rapporto tra il regime nazista e quell’intellighenzia accademica, scientifica e umanistica, che non gli si oppose perché condivideva, almeno in parte e spesso per spirito nazionalpatriottico, gli sforzi per “Risorgimento nazionale” proclamato dai nazisti nel 1933, per rovesciare l’ordine politico creato a Versailles nel 1919. Rovesciamento che a Hitler è riuscito davvero ma nella direzione opposta, cioè provocando la distruzione totale della compagine statale della Germania. Gli scienziati, invece, continuarono le loro ricerche anche dopo il 1945, sottolineando la loro “impoliticità” per evitare un processo di epurazione. Lo spirito di una corporazione che tutelava a vicenda i suoi membri aiutò loro a superare il regime. 

Lutz Klinkhammer

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