CULTURA

La sedia di cartone

“Il documentario inizia con una soggettiva un po’ sbilenca del soffitto. E finisce con l’immagine di Jeoffrey che, fuori dalla capanna, guarda la mamma dritto davanti a sé”. Un cambio di prospettiva nella relazione tra una madre e un figlio che riassume tutto il senso di questa storia raccontata in soli sedici minuti. Si intitola La sedia di cartone (The special chair) ed è il documentario breve realizzato dal regista trevigiano Marco Zuin. Il protagonista è Jeoffrey, un bambino di diciotto mesi con spina bifida e idrocefalo, uno dei tanti bambini svantaggiati seguiti dal Saint Martin Csa, organizzazione che lavora sugli altopiani del nord del Kenya, a duecento chilometri da Nairobi, offrendo sostegno concreto alle persone più vulnerabili, dai disabili alle vittime di abusi e violenza, operando all’interno delle comunità dei territori coinvolti.  Jeoffrey vive in una capanna di terra battuta in un villaggio rurale a cinquanta chilometri da Nyahururu. A prendersi cura di lui è la giovane mamma Teresa, allontanata di casa da un marito incapace di accettare la disabilità del figlio e tornata, quindi, a vivere vicino ai suoi genitori. Jeoffrey non si può muovere autonomamente e ha bisogno di un ausilio su misura che gli consenta di mantenere una postura corretta, per evitare ulteriori malformazioni. “È completamente dipendente, ti segue solo con lo sguardo – spiega Zuin al Bo – I suoi occhi parlano e chiedono protezione. È commovente osservare Teresa mentre si prende cura del suo piccolo”.

Nel 2009 la Cerebral Palsy Africa organizza a Mombasa un corso sugli Apt (Appropriate paper-based technology), tecnica che ha avuto origine in Zimbabwe negli anni Settanta grazie a Bevill Packer, professore di sociologia all’università di Bulawayo. Con materiali poveri, come il cartone riciclato, vengono costruiti supporti che, oltre a svolgere la loro funzione specifica, consentono a molte persone con disabilità di partecipare alla vita familiare e sociale. Quell’anno il Saint Martin invia a Mombasa un suo operatore, Timothy Kiragu, affinché impari la tecnica. Una volta rientrato, Timothy inizia a realizzare ausili utilizzando il cartone. Ora questo progetto rientra nel Cppd per persone con disabilità del Saint Martin, un programma a cui lavorano quattordici persone e oltre 400 volontari locali e che realizza ogni anno più di 150 ausili, di cui il 30% in cartone riciclato. Il Cppd (Community programme for people with disabilities) garantisce a oltre mille bambini disabili all’anno un sostegno riabilitativo e un accompagnamento nell’inserimento scolastico e si rivolge, inoltre, agli adulti disabili attraverso un sostegno concreto nell’attività lavorativa, individuando per loro il percorso più adatto (confezionare vestiti, allevare galline o pecore, lavorare la terra).

Il piccolo Jeoffrey all'esterno della capanna nel suo villaggio in Kenya

Il documentario di Zuin, realizzato per Fondazione Fontana onlus (secondo lavoro del regista dedicato all’attività del Saint Martin dopo Me We. Only through community, undici storie di riscatto e rinascita), in collaborazione con la comunità L’Arche Kenya, racconta un caso per raccontarli tutti: la storia di una vita che si trasforma partendo dai piccoli riti quotidiani e migliora grazie all’acquisizione di una tecnica semplice e creativa. “Ho cercato di raccontare l’emozione di questa esperienza attraverso uno sguardo positivo e poetico, dosando la leggerezza necessaria per affrontare la profondità”. In questa storia c’è un prima e un dopo: prima della sedia di cartone, quando l’attesa all’interno della capanna poteva durare ore e gli occhi di Jeoffrey restavano sempre rivolti al soffitto, e un dopo, fuori da quella capanna, ad osservare la mamma mentre lavora e si occupa degli animali. Un caso non isolato, una piccola grande rivoluzione che, in Africa, ha già trasformato la vita di tanti altri disabili. “Siamo arrivati in Kenya a gennaio e abbiamo incontrato alcune famiglie, dovevamo individuare la storia giusta da raccontare – racconta Zuin - Alla fine abbiamo scelto quella di Jeoffrey. La sua è stata la prima famiglia che ho conosciuto e subito mi ha conquistato. Prima di iniziare le riprese, sono rimasto con loro una settimana, per scoprire la loro quotidianità ed entrare in confidenza. Abbiamo passato del tempo insieme, qualche domanda mirata e una osservazione costante delle loro abitudini. Poi ho iniziato a riprendere, a raccontare la vita di Jeoffrey, partendo dal suo sguardo”.  

Francesca Boccaletto

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