SOCIETÀ

Kenya, l'eccellenza del corno d'Africa è in crisi

Il Kenya è l’eccellenza del Corno d’Africa, il fulcro economico e commerciale della Regione, il Paese che più d’ogni altro vicino ha saputo trovare negli anni, dall’indipendenza del 1963, una solidità democratica e un ruolo internazionale. Ma che oggi è alla ricerca di una soluzione per i gravi problemi che l’affliggono. Il più antico: la corruzione endemica, il clientelismo, al punto che il Kenya occupa regolarmente le zone più basse della classifica dell’ong “Transparency International” (nell’ultima, del 2021, era alla 128ᵃ posizione su 180). E il più recente: il crollo economico dovuto alla pandemia, al turismo bloccato, alla disoccupazione, al debito pubblico che va alle stelle, all’invadenza della Cina, alle importazioni sempre più difficili, lente e costose, alla quasi totale dipendenza dal grano russo e ucraino, all’inflazione. E nel mezzo le solite disuguaglianze, l’abisso che divide le élite ai vertici del potere e la società civile, le violenze diffuse e impunite, soprattutto verso le donne e i bambini. La fame, che secondo l’ultimo rapporto di Save the Children e Oxfam colpisce oggi 3,5 milioni di persone in Kenya. Oltre allo sfruttamento minorile, al basso livello d’istruzione, alle immense baraccopoli (il 60% della popolazione di Nairobi, la capitale, vive in abitazioni di fortuna) dove lo stato non arriva, non si sente, non si vede. Tutti temi che saranno sull’agenda (alcuni davvero, altri chissà) del prossimo presidente del Kenya, che sarà eletto il prossimo 9 agosto, al posto dell’uscente Uhuru Kenyatta, che dopo due mandati, in ossequio a quanto disposto dalla Costituzione, ha deciso di non ripresentarsi. Ma che prima di lasciare ha tentato, in accordo con il suo ex acerrimo rivale e leader dell’opposizione, nonché candidato alla futura presidenza, Raila Odinga (Orange Democratic Movement, socialdemocratico), di modificare la carta costituzionale, proponendo di ampliare il potere dell’esecutivo, reintroducendo la carica di primo ministro (soppressa nel 2013, quando a ricoprirla era lo stesso Odinga) e aumentando il numero dei seggi parlamentari da 290 a 360. Ma la riforma, chiamata Building Bridge Initiative, è stata respinta il mese scorso dalla Corte Suprema con questa motivazione: gli emendamenti costituzionali devono essere presentati da cittadini comuni, non dal presidente. I maligni sostengono che Kenyatta puntasse in realtà a fare il premier, con Odinga presidente.

La sentenza della Corte Suprema viene letta come un punto a favore dell’altro “peso massimo” candidato alla presidenza: l’attuale vicepresidente William Ruto, leader di Alleanza Democratica Unita (centrodestra), in pessimi rapporti con Kenyatta (si sono deteriorati non appena ha saputo che avrebbe sostenuto il suo rivale), che come indipendente riuscì a farsi eleggere nel 2017. Le elezioni in Kenya hanno due costanti: i candidati che ricorrono (stesse famiglie, stesse etnie, cambiano solo le alleanze) e le violenze che immancabilmente le accompagnano. Nelle ultime, cinque anni fa, ci furono un centinaio di morti nei disordini post voto, innescati da sospetti brogli. Molto peggio andò nel 2007, quando il Kenya si ritrovò sull’orlo di una guerra civile, con violentissimi scontri interetnici e atroci violenze tra i sostenitori delle due coalizioni: quella vincente del presidente Mwai Kibaki e da Uhuru Kenyatta, allora suo vice, e quella sconfitta, formata dai due prossimi competitor, Raila Odinga, che correva per la presidenza, e William Ruto che avrebbe dovuto essere il suo vice. I morti furono oltre 1100, soprattutto a Kibera, il più grande slum (baraccopoli) dell’Africa, il secondo più grande del mondo, con 2,5 milioni di abitanti stimati. Circa 3500 furono i feriti, con oltre centomila proprietà private distrutte, oltre a 500 edifici governativi, mentre 650mila persone rimasero senza casa. Per fermare il conflitto fu necessaria una mediazione internazionale. Per quegli incidenti, e con l’accusa di aver commesso “crimini di guerra”, vennero chiamati a rispondere alla Corte Penale Internazionale gli stessi Uhuru Kenyatta e William Ruto, ma le inchiestenon riuscirono a dimostrare responsabilità dirette.

Alleanze tribali

Dunque è con una certa apprensione che ci si avvicina alla tornata elettorale del prossimo agosto, nella quale sarà deciso non soltanto il nome del prossimo presidente (ma in caso di ballottaggio, probabile, si voterà a fine ottobre), ma saranno scelti anche i futuri parlamentari, i governatori e i membri delle 47 assemblee di contea. La posta in gioco è molto alta e le procedure di voto, storicamente, assai torbide. Al punto che Eric W. Kneedler, incaricato d’affari dell’Ambasciata statunitense a Nairobi, ha diffuso il mese scorso una nota ufficiale nella quale auspica «l’importanza di svolgere elezioni libere, eque e pacifiche». Principi che non sempre collimano con gli interessi e le aspettative degli oltre 70 gruppi etnici che vivono in Kenya, tra Bantu, Nilotici e Cushiti. La tribù più popolosa, e politicamente influente, è la Kikuyu (etnia Bantu, circa 7 milioni di persone sui 53 milioni di abitanti complessivi). I due candidati presidente, Odinga e Ruto, provengono rispettivamente dalle tribù Luo e Kalenjin (entrambe dell’etnia dei Nilotici). Ed è perciò che come vicepresidenti hanno scelto due Kikuyu. Odinga, soprannominato “baba” (papà) per i suoi 77 anni, ha chiamato Martha Karua, veterana del Parlamento, ex ministro della Giustizia dal 2003 al 2009, riformista, chiamata “la lady di ferro” per la sua fermezza e abilità nel fronteggiare gli avversari politici (uomini): «Voglio dire che è arrivato il momento per le donne del Kenya», ha dichiarato Karua, sperando di intercettare in larga parte il voto di genere. Mai una donna ha ricoperto una così alta carica di governo. «Dopo 60 anni di indipendenza, non possiamo giustificare il dominio maschile nell’esecutivo», ha incalzato Odinga, che al primo punto del suo programma per i primi 100 giorni ha indicato “l’uguaglianza nella distribuzione delle risorse nelle 47 contee del Paese”. Come dire: nessuno sarà lasciato indietro e non ci saranno favoritismi. Ma la scelta di Karua ha spaccato la sua coalizione: l’ex vicepresidente Kalonzo Musyoka, che ambiva al ruolo di vice, se n’è andato sbattendo la porta, annunciando che si sarebbe candidato come indipendente. Ruto invece si è affidato  a un ricco uomo d’affari, Rigathi Gachagua, abile e scaltro, peraltro sotto inchiesta per corruzione e appropriazione indebita, a quanto pare in grado di mobilitare un grande seguito attorno a sé. Un personaggio che racconta molto dell’ambiguità della politica keniota. E che, in caso di successo, potrebbe presto ambire a ruoli di primissimo piano.

Questione non secondaria quella dei candidati “indipendenti”. Perché più se ne presentano (quest’anno 46, mai così tanti) più c’è il rischio che i voti al primo turno si disperdano, spingendo l’elezione fino al ballottaggio. Scrive il sito d’informazione politica locale The Elephant: «I leader delle coalizioni trascorrono il periodo successivo alle candidature chiamando freneticamente coloro che si sentono ingannati per offrire poi una serie di “ricompense” per rimanere fedeli: nomine a incarichi di gabinetto, a varie commissioni statali, a far parte di organi legislativi, perfino a ruoli di ambasciatore. Fino all’offerta di buon denaro, vecchio stile. È risaputo che la nomina dei candidati per alcuni lavori statali è fortemente influenzata dalle realtà della coalizione piuttosto che dalle capacità e dalle qualifiche degli individui interessati. Tali accordi sono la linfa vitale della politica elettorale keniota, ma minano la responsabilità e incorporano la conclusione di accordi - e quindi pratiche potenzialmente corrotte - al centro non solo dello stato, ma anche delle istituzioni regionali». La partita della presidenza sarà comunque una sfida a due. Secondo l’ultimo sondaggio di Tifa Research, Ruto è al 39%, Odinga al 32%, con un’alta percentuale di indecisi (28%). Invece per InfoTrack entrambi i candidati sarebbero al 42% delle preferenze. Risultati troppo differenti per essere presi per affidabili: e visto che il voto si divide rigorosamente per etnie, sarebbe indispensabile capire qual è la reale distribuzione nel paese del campione scelto.

Economia, inflazione, siccità

La partita del voto si giocherà soprattutto sul tema dell’economia, sia macro (Pil, debito pubblico) sia micro, quella che riguarda la povera gente, i dimenticati, gli esclusi. Bene il Pil dello scorso anno, +7,5% (dati del Kenya Economic Survey), calato al 5% quest’anno per via dell’inflazione, calo comunque contenuto grazie alla sostanziale tenuta del settore agricolo, ora però in affanno per l’aumento dei costi e per il rallentamento nella fornitura dei fertilizzanti. Ma molte, moltissime persone continuano a lottare per sopravvivere, tra prezzi in aumento e una gravissima siccità che ha colpito soprattutto nelle contee settentrionali, decimando il bestiame. Entrambi i candidati hanno promesso una crescita del prodotto interno lordo attorno al 10%, nonostante l’analisi di Shani Smit, economista di Oxford Economics Africa: «Storicamente, il Kenya tende a registrare una crescita economica inferiore in un anno elettorale. Per il 2022 prevediamo un picco dell’inflazione dei prezzi al consumo e un calo delle riserve estere lorde». Il candidato Ruto ha promesso di istituire, se eletto, un fondo di 100 milioni di scellini kenioti (pari a circa 800mila euro) per “venditori di verdure, carrettieri e altri in fondo alla scala economica”. Il suo rivale Odinga ha annunciato uno stipendio mensile di 6mila scellini (48 euro) per poveri e disoccupati. Il presidente uscente Uhuru Kenyatta ha comunque deciso, lo scorso mese, di aumentare i salari del 12% per far fronte, almeno in parte, all’aumento dei prezzi dovuto alla guerra in Ucraina. Mentre la Banca Centrale del Kenya ha alzato pochi giorni fa, mossa inattesa, il suo tasso di interesse chiave al 7,5% per sostenere lo scellino e frenare l’aumento dell’inflazione, che ad aprile ha toccato il 6,5%. E a complicare ancor di più un quadro già di per sé fragile, c’è anche la “sfida degli investimenti”, se così vogliamo definirla, tra Cina e Giappone: ma con il governo keniota sempre più in difficoltà nel rimborsare i debiti relativi ai progetti infrastrutturali finanziati da Pechino e da Tokio. Con la Cina che, alla fine dello scorso anno, ha respinto una richiesta di proroga degli obblighi di pagamento.

Da qui ad agosto non mancheranno i comizi, le manifestazioni, le grandi promesse e gli altrettanto grandi inganni (con tanto di campagne social a colpi di fake news per condizionare gli umori dell’elettorato). Sempre con il timore che un pretesto possa innescare scontri interetnici difficilmente arginabili. Al punto che il Comitato Internazionale della Croce Rossa e della Mezzaluna Rossa, la più grande e ramificata organizzazione umanitaria al mondo, ha diffuso due settimane fa un documento di “preparazione al disastro” in vista delle elezioni keniote: «Sulla base dell’esperienza delle precedenti elezioni, è possibile che un’accresciuta tensione porti a disordini», scrive la ong, annunciando di aver stanziato fondi alla Croce Rossa del Kenya per essere preparata a sostenere le comunità potenzialmente colpite.

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