SOCIETÀ

Soffriamo di deficit da scatto (fotografico)

“Prima, portavamo con noi la macchina per fare foto. Adesso, facciamo foto perché portiamo con noi il telefono. Prima, le nostre fotografie riproducevano il mondo per conservarlo: ora lo abitano e lo consumano assieme a noi”. Così, quattro anni fa, Michele Smargiassi descriveva nelle colonne de “La Repubblica” la diffusione della mobile photography, la fotografia attraverso il telefono cellulare. Un fenomeno di massa che ha cominciato ad affermarsi nel 2007 con l'arrivo sul mercato dell'iPhone, prodotto che nel 2015 possedevano 2 miliardi di persone nel mondo.

L'introduzione dello smartphone ha dato il via ad un cambiamento socioantropologico che ci ha introdotti nell'era della fotografia smart, facilmente realizzabile e immediatamente condivisibile. Lo dimostrano gli 880 miliardi di fotografie che secondo Yahoo abbiamo scattato nel 2014 e i 400 milioni di utenti del social network fotografico più in voga: Instagram. Numeri che superano ogni barriera linguistica perché l'immagine – si pensi alla foto del corpo senza vita del piccolo Aylan, riverso sulla spiaggia di Bodrum, che lo scorso anno ha fatto il giro del mondo – è universalmente comprensibile. Rispetto al passato, però, la fotografia non serve più a fermare il tempo, ma a tentare di riprodurlo in streaming. Il ricordo lascia il posto al presente, alla possibilità data a ciascuno di registrare qualunque evento in qualsiasi momento e, grazie a internet e al wifi, di condividerlo con destinatari sconosciuti. In questo inarrestabile dialogo globale, o monologare collettivo, il fotoreporter professionista vede messo in discussione il proprio ruolo di produttore esclusivo di contenuti e informazioni. Al contempo, la circolazione generalizzata e decontestualizzata di immagini necessita, prima del loro utilizzo in contesti come quello giornalistico, di un'attenta verifica della fonte e della loro eventuale manipolazione. Temi, questi, che Irene Alison, giornalista ed esperta di fotografia documentaria, ha trattato nel recente volume iRevolution. Appunti per una mobile photography, edito da Postcart.

Raccogliendo i punti di vista di curatori, teorici, photoeditor e professionisti che hanno scelto di sperimentare le potenzialità dello smartphone per documentare il contemporaneo (tra questi Kathy Ryan, Alec Soth, Stefano De Luigi e Ron Haviv), l'autrice offre degli spunti di riflessione su questo “nuovo sistema di comunicazione sociale”, cercando di individuare se esista un confine tra la perizia tecnica che c'è dietro la produzione di un'immagine da parte di un fotografo “vero” e il semplice gesto di premere il tasto di uno smartphone.

Nel 1888 la Eastman Kodak Company aveva presentato al mondo la prima fotocamera pensata per il largo consumo, usando come slogan “Voi premete il bottone. Noi facciamo il resto”. Oggi i progressi della tecnologia ci hanno consegnato un “mezzo”, per riprendere un termine caro al sociologo canadese Marshall McLuhan, che sta diventando il nostro cervello, memoria e sguardo. Generiamo una tale quantità di fotografie, in maniera quasi compulsiva, che non torniamo quasi mai a guardare e di cui difficilmente ricordiamo l'oggetto e i suoi dettagli. A sottolineare la tendenza ad assegnare maggior valore all'atto del fotografare piuttosto che ai suoi risultati, la psicologa e ricercatrice Linda Henkel ha coniato la definizione di “deficit da scatto”.

In tempi di individualismo assoluto, poi, la pretesa di originalità che ciascuno a suo modo ricerca, finisce inevitabilmente con l'uniformarsi a modelli prestabiliti. Ne sono un esempio la moda del selfie e quella del ricorso a filtri finto-vintage. Il primo è stato descritto variamente come “l'icona dell'era del narcisismo”, “disturbo da dismorfismo corporeo” o, per contro, “naturale prolungamento di un processo di esplorazione identitaria”. Per i ricercatori di Selfiecity, invece, trova la sua ragion d'essere nella condivisione sui social media, nei commenti che seguono, nei “Mi piace” e nelle ricondivisioni da parte di altri utenti. Detto altrimenti, non si tratterebbe di un'immagine creata per ricordare o documentare, ma di una necessità di comunicazione immediata. Anche la ripetitività con cui si sceglie di riprendere uno stesso soggetto, il fatto di pubblicare tutta la sequenza senza scegliere solo un'immagine, postando persino le foto brutte, rappresentano un'altra forma di proiezione dell'ego che si vuole condividere.

Un altro cliché a cui sembra non si possa fare a meno di ricorrere è quello di modificare le foto con appositi filtri finto-vintage. Sembrerebbe un tentativo di farle sembrare più preziose e reali, in realtà trasmettono sentimenti di nostalgia.

“Perché abbiamo il bisogno di guardare il presente con occhi così nostalgici?”, si chiede Irene Alison. Forse, data la precarietà esistenziale di oggi, guardare attraverso una fittizia patina retrò ci infonde maggiore fiducia per il futuro oppure ci mette nella posizione di vivere il nostro presente con la consapevolezza che quell'immagine sarà percepita come documento di qualcosa di già accaduto. O ancora, più semplicemente, ricorriamo a quello stile “per rimediare – come scrive Smargiassi – all'insopportabile banalità di immagini che non ci sembrano connotate da niente, se non dalla nostra incapacità di fare belle foto”. Sì, perché più che fotografi siamo testimoni. Alcuni con una forte sensibilità visiva e una creatività che liberano attraverso lo smartphone. Ma alla rapida diffusione di tali foto, tramite i social e non più attraverso le agenzie, si accompagna la capacità di chi le guarda di decifrarne il contenuto e il messaggio? Possediamo tutti un'alfabetizzazione visiva che ci permette di valutare le immagini con occhio critico?

È qui che entra in gioco la distinzione tra il “vero” fotografo e la moltitudine di fotografanti. Per Michele Smargiassi, “lasciare al lettore un compito superiore a quello che può normalmente assolvere – verificare le fonti, selezionarle, metterle in gerarchia – non vuol dire necessariamente fare un'informazione più democratica”.

Per fare la differenza, la battaglia del professionista deve puntare sull'esercizio autoriale di un punto di vista sul mondo e sulla qualità dell'approfondimento. Aspetti che Alison traduce come capacità di “raccontare andando alla periferia dell'azione”, cercando visioni personali sull'evento e interagendo con il soggetto e il contesto. In una frase: “Contaminare creativamente i generi e i codici dello storytelling”.

Elena Trentin

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