SOCIETÀ
Stati Uniti "Pride"
Foto: Reuters/Lucy Nicholson
Con la decisione della Corte Suprema del 26 giugno nel caso Obergefell v. Hodges, che ha stabilito che il matrimonio è un diritto costituzionale di tutti gli americani, quindi anche degli omosessuali, gli Stati Uniti sono diventati il 23mo paese al mondo a legalizzare, a livello nazionale, le unioni tra persone dello stesso sesso. Sono cominciati così subito i festeggiamenti in ogni angolo d’America, a partire naturalmente dalla Casa Bianca e dalla Corte Suprema, dove già dalle prime ore del mattino si erano radunati gruppi di attivisti e sostenitori in attesa del verdetto dei nove massimi giudici americani. “La nostra nazione è stata fondata sul principio fondamentale che siamo tutti creati uguali – ha dichiarato il Presidente Barack Obama dal giardino delle rose della Casa Bianca – Oggi possiamo dire, senza ombra di dubbio, che abbiamo reso la nostra Unione un po’ più perfetta”.
Certo, il matrimonio gay era già legale in 37 stati, con una popolazione equivalente al 70% del totale, e quindi la Corte Suprema lo ha semplicemente esteso anche ai rimanenti 13. Tra essi, comunque, ve ne sono almeno due di dimensioni sostanziali, il Texas e l’Ohio. Complessivamente la decisione riguarda quindi circa 3 milioni di persone che hanno guadagnato così il diritto a sposarsi. Al di là di questi numeri, è questo un passaggio davvero storico, anche a livello simbolico, tanto più perché tutt’oggi gli Stati Uniti hanno un’influenza culturale sproporzionata sul resto del mondo. “La decisione della Corte Suprema non ha a che vedere solo con le nozze – ha commentato Frank Bruni sul New York Times – ha a che vedere con il valore [degli individui]. Dal più alto pulpito di questa nazione, nel più autorevole dei toni, una maggioranza di giudici ha detto a una minoranza di americani che essi sono normali e che fanno parte del paese – pienamente, gioiosamente e con tanto di torta”.
Dello stesso tenore anche la conclusione della sentenza che rappresenta l’opinione dei cinque giudici favorevoli (i quattro contrari hanno redatto ognuno il proprio testo di dissenso), scritta da Anthony Kennedy e già lodata per la sua bellezza quasi elegiaca. Scrive Kennedy: “Non c’è unione più profonda del matrimonio, giacché questo incarna i più alti ideali di amore, fedeltà, devozione, sacrificio e famiglia. Nel formare un’unione matrimoniale, due individui diventano qualcosa di più grande di quanto fossero in precedenza. Come dimostrano alcuni dei richiedenti nei casi qui in discussione, il matrimonio rappresenta un amore che può durare anche dopo la morte. Si equivocano questi uomini e queste donne quando li si accusa di mancare di rispetto all’idea del matrimonio. Il loro appello è proprio che lo rispettano, lo rispettano così profondamente che desiderano trovare l’appagamento che ne deriva per se stessi. La loro speranza è di non essere condannati a vivere in solitudine, esclusi da una delle istituzioni più antiche della civiltà. Chiedono uguale dignità negli occhi della legge. La Costituzione accorda loro tale diritto”.
Insomma, un momento straordinario per la comunità LGBTQ americana e internazionale. E la ciliegina sulla torta di una settimana incredibile per il presidente Obama, apertasi con gli stati del Sud che hanno finalmente iniziato ad ammainare la bandiera confederata in risposta alla tragica sparatoria del 17 giugno in una chiesa afro-americana di Charleston in South Carolina, dove hanno perso la vita nove persone, e proseguita poi con la riaffermazione, sempre da parte della Corte Suprema, della costituzionalità della sua legge di riforma sanitaria.
Con la fine della sua presidenza ormai prossima, e dopo anni in cui la sua eredità politica pareva in dubbio, sospesa nel limbo dell’ostruzionismo repubblicano e di alcuni suoi passi falsi, la sentenza Obergefell v. Hodges ha anche un altro effetto politico. Mette infatti in una luce diversa l’operato dell’amministrazione Obama permettendo alla Casa Bianca di guardare ora ai propri successi. Dallo scoppio della crisi finanziaria, gli Stati Uniti, hanno – in successione e solo per fare gli esempi più importanti – aperto le casse federali per salvare l’industria automobilistica di Detroit e arginare il crollo di quella di Wall Street; attuato norme piuttosto stringenti sulle banche per cercare di garantire all’economia un futuro più sostenibile; approvato una riforma sanitaria che, in pratica, ha spianato la strada a una copertura assicurativa universale, per tutti gli americani; alzato le tasse sui più ricchi; tentato di chiudere i capitoli ignominiosi delle guerre in Afghanistan e in Iraq; infine ripristinato i rapporti diplomatici con Cuba.
Molto resta naturalmente da fare: dall’immigrazione al controllo delle armi, alla lotta alla disuguaglianza e al razzismo, allo spionaggio elettronico della NSA, alla politica in Medio Oriente che non è certo pacificato. Come ha sottolineato lo stesso Obama nel discorso dal giardino delle rose, “il progresso arriva in piccoli incrementi, qualche volta due passi avanti e uno indietro”. Non è detto, quindi, che quello che rimane da fare verrà fatto e che quello che è stato fatto non venga in qualche modo rovesciato. Però non c’è dubbio che negli ultimi 7 anni gli Stati Uniti di strada ne hanno percorsa. E l’Europa?
Valentina Pasquali