UNIVERSITÀ E SCUOLA

Se trovare lavoro è un’impresa

Trovare lavoro è già un lavoro di per sé, che come tale va sperimentato e appreso: soprattutto se sei un giovane italiano, magari laureato, e ti trovi nella peggiore crisi economica degli ultimi decenni. Nel nostro Paese la disoccupazione giovanile naviga da tempo intorno al 40%, mentre l’indipendenza economica si conquista ormai intorno ai 40 anni. Uno scenario in cui diventa particolarmente importante per singoli e istituzioni elaborare percorsi e strategie per trovare e creare lavoro: di questo si è parlato a Padova al convegno nazionaleScienza e coscienza a 1000 euro al mese. Neolaureati e mercato del lavoro, con l’obiettivo di fornire una base di documentazione sulla situazione e di mettere gli atenei italiani in rete al fine di organizzare servizi per il supporto dei loro iscritti.

Come si comportano i laureati quando cercano lavoro, quali sono i canali di collegamento tra l’università e le loro aspettative professionali? Un aiuto alla comprensione viene dall’indagine PETERE (Preference Elicitation of job Traits as Expected by REcent graduates), i cui risultati sono stati presentati durante il convegno da Anna Boaretto, Paolo Costa e Gilda Rota del Servizio Stage e career service dell’ateneo padovano. Durante la ricerca sono stati contattati, al momento della laurea e 18 mesi dopo, 5706 laureati dell’università di Padova dell’anno accademico 2014-15, ottenendo 2.979 risposte: i risultati sono stati interessanti sotto diversi punti di vista. Un primo dato è quello sull’occupazione: a 18 mesi dalla laurea lavora il 65% dei laureati padovani che ha cercato un’occupazione (il 24% per la verità mantenendo un’attività che svolgeva da prima), mentre il 16% continua a studiare e il 17% cerca ancora. La percentuale dei cosiddetti Neet è intorno al 2%: un dato considerevolmente più basso della media nazionale.

Di fronte a un’emergenza di queste dimensioni i laureati le provano davvero tutte, con una forte prevalenza del fai da te rispetto ai canali istituzionali. Ai primi posti tra le fonti di informazione ci sono internet e i Social (utilizzati dal 70,7% del campione), amici e persone che lavorano già (59,3%) e i bandi pubblici (48,4%). Per quanto invece riguarda i canali per proporsi al mercato del lavoro vincono l’invio diretto di curriculum (76%), i colloqui di lavoro individuali e collettivi (54,9%) e le conoscenze di amici, parenti e familiari (32,8%). Molto più basso il numero di coloro che si rivolgono al sistema di collocamento pubblico (24,9%), che peraltro sembra funzionare solo nell’8% dei casi. I canali più efficaci, oltre alle conoscenze di amici e parenti, sono quelli che esprimono l’intraprendenza e la consapevolezza dei laureati nella ricerca (come colloqui di lavoro, concorsi internazionali e l’ingresso in studi professionali, società o cooperative), oltre a quelli che forniscono informazioni coerenti con il percorso di studi e sono ritagliati sul laureato (sportelli universitari, docenti). Quanto all’invio di cv, esso generalmente non ha effetto positivo sulla probabilità di trovare lavoro, a meno che non rientri in una strategia in qualche modo mirata: bisogna insomma saper scrivere il curriculum giusto per ogni azienda a cui ci si candida. 

Ogni laureato nella sua ricerca utilizza in media 3,56 canali; l’unione fa la forza, stando però attenti però a non esagerare: “Meglio focalizzare risorse ed energie su obiettivi chiari, studiare percorsi piuttosto che mandare curriculum a casaccio. Più canali si utilizzano e minore è l’efficacia”, spiega Anna Boaretto del Servizio Stage e career service. Qualche consiglio? “Innanzitutto raccogliere informazioni già prima della laurea: l’università di Padova in questo fa la sua parte con consulenze, seminari e incontri con le aziende che aiutano gli studenti a chiarirsi le idee”. A questo riguardo i servizi forniti dagli atenei sono in crescita, sia nei numeri che nell’efficacia, ma c’è ancora spazio per migliorare. Spia di un rapporto, quello tra università e mondo del lavoro, che negli ultimi anni sta cambiando: “Oggi ad esempio nell’università di Padova ci sono circa 21.000 stage e tirocini ogni anno, anche in corsi di laurea che una volta non li contemplavano – continua Boaretto –. Un’istituzione antica, quella del tirocinio, che aiuta a sviluppare le competenze e a stabilire un contatto con il dopo, anche se a questo riguardo è essenziale il ruolo del tutor aziendale e di quello accademico”. Quali sono le figure più ricercate? “Non possiamo nasconderci dietro a un dito: oggi il tessuto economico e produttivo chiede soprattutto figure dal profilo tecnico. Non è però detto che anche un laureato in lettere non abbia le sue opportunità, soprattutto se completa il proprio profilo con altre competenze, come quelle in ambito digitale. Oggi ad esempio sono ricercate figure che possano operare negli ambiti della dei social media e delle risorse umane”.

Va comunque detta una cosa: i giovani reagiscono alla crisi mostrando spirito di adattamento e volontà di mettersi in gioco, al di là degli stereotipi sugli italiani “bamboccioni” o troppo “Choosy”. A dircelo è la seconda parte della ricerca presentata (PETERE-2), che ha indagato i criteri di scelta del lavoro, simulando per i laureati la possibilità di scegliere tra diverse posizioni offerte. I risultati, illustrati durante il convegno da Luigi Fabbris e Manuela Scioni, docenti del dipartimento di Scienze statistiche dell’università di Padova, dicono ad esempio che all’inizio del loro percorso lavorativo gli studenti sono disposti ad accettare un salario molto inferiore rispetto a quello ritenuto ideale, con un differenza che può arrivare anche a 400 euro. Una disponibilità al sacrificio che comprende anche altri aspetti, come la flessibilità di orari e la possibilità di lavorare nel fine settimana e all’estero. Rinunce che i giovani sono disposti ad affrontare a patto che dall’altra parte vengano offerti stimoli adeguati, in primis in termini di possibilità di carriera e di svolgere un lavoro coerente con il proprio titolo di studio. 

Lo spirito di adattamento però non risolve tutto: “Ci sono alcuni segnali di un’inversione di tendenza – spiega al Bo Luigi Fabbris – i dati Almalaurea segnalano un lieve recupero del tasso di occupazione e del salario d’ingresso nel mondo del lavoro per i laureati. Questo però non ci deve far dimenticare che stiamo ancora vivendo un periodo durissimo per l’occupazione giovanile”. Che fare allora? “C’è uno spazio enorme in questo Paese per politiche del lavoro, avendo anche il coraggio di fare qualche forzatura – dice Fabbris –. Si potrebbe ad esempio pensare a un’integrazione in busta paga versata dallo Stato ai neoassunti, anche dell’80% dello stipendio”. Così però non si rischia di drogare il mercato e di buttare via risorse? “Vede, uno dei problemi è che gli imprenditori in questo momento non si fidano della ripresa: sono però convinto che se vedono i giovani all’opera poi se li tengono. Se invece li facciamo scappare tutti all’estero molti di loro non li vedremo più”. Ma non è tutto: “I nostri studenti devono imparare a resistere ai rifiuti e agli ostacoli che incontreranno. E a insegnarlo devono essere anche scuola e università”. Magari predisponendo una serie di servizi per aiutare laureandi e laureati a valutare il proprio capitale psicologico, dando loro sostegno e consulenza e formandoli ad avere obiettivi e a presentarsi correttamente. C’è insomma una generazione intera da motivare, sostenere e allo stesso tempo mettere davanti alle sfide: la ripresa, se prima o poi ci sarà, dovrà necessariamente partire anche da qui. 

Daniele Mont D’Arpizio

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