In un mondo iperconnesso e veloce, concentrato su tecnologia e innovazione, l’arte e gli studi umanistici sembrano trovare a stento un posto. Eppure, spiega Doris Sommer, professoressa di Lingue e letterature romanze all'Università di Harvard, il loro ruolo rimane fondamentale perché “senza la creatività non può accadere nulla”. L’utilità degli studi umanistici, spiega Sommer, è precisamente questa: “Fare un passo indietro, fermarsi e riflettere su quale sia il passo successivo da compiere. Senza quella pausa, senza un rallentamento del pensiero, senza una filosofia estetica che ci conduca a un giudizio, prendiamo inevitabilmente pessime decisioni”. È un ruolo quasi invisibile, che le persone non notano. Per questo motivo il campo di studi ne soffre, con budget inferiori ad altre materie e meno studenti nelle classi.
E se sempre meno persone frequentano musei, biblioteche e luoghi dedicati alla cultura, questo è perché i cittadini non vengono attivamente coinvolti. Anzi, il costo per consumare “passivamente” l’arte è troppo alto, soprattutto per le famiglie. Riportare la gente nei musei, nelle gallerie, nelle sale da concerto oggi è una delle sfide più impegnative, che deve passare obbligatoriamente per un community engagement, a partire dall’integrazione delle attività dei musei con quelle delle scuole. È necessario aggiungere la componente attiva - il fare – a quella passiva - il vedere: in questo modo si attivano le persone in quanto cittadini e interlocutori. Il museo può diventare così una hub educativa gratuita.
“ L’arte è un cambiamento intenzionale, è fare qualcosa di nuovo e difficile
Per proporre azioni che coinvolgano la cittadinanza, Sommer fa una proposta concreta che parte da una riflessione: “In quanto umanisti, siamo anche ricercatori. E siamo spettatori e docenti. Dunque perché non facciamo ricerca usando casi di studio come si fa nelle altre discipline?” Ecco allora che la studiosa propone di adottare quel procedimento anche nel campo delle scienze umane, così come viene usato in economia, negli studi sanitari, statistici o nella fisica, ad esempio. Manca forse agli umanisti la componente della misurabilità, manca una procedura di elaborazione per la misurazione dei risultati di un’azione. Eppure proprio questo sarebbe fondamentale per proporre azioni sociali ai decisori politici: “un caso che identifichi un problema, che proponga una riflessione e faccia un intervento del quale sia poi sia in grado di misurare i risultati”. Uno dei punti più delicati del processo è quindi la misurazione, che comporta sempre un rischio. “Noi umanisti in genere non amiamo il rischio. E non siamo abituati al rischio. Ciò di cui discutiamo in sede accademica non lo prevede. L’arte comporta rischio per chi la fa, ma non per chi ne parla. Siamo educati a non prenderci responsabilità. Dobbiamo superare questa concezione. Se non rischiamo, niente cambia. L’arte è un cambiamento intenzionale, è fare qualcosa di nuovo e difficile”.