UNIVERSITÀ E SCUOLA

Università e classi dirigenti: un rapporto difficile

Per i primi sette secoli della sua storia l’ateneo padovano è stato soltanto in periodi relativamente circoscritti e in misura parziale un luogo privilegiato di formazione di chi deteneva il potere in ambito politico e sociale. Lo fu, ad esempio, soltanto parzialmente nel corso del Medioevo, quando anche l’università di Padova ospitò soprattutto studenti che aspiravano a ricoprire cariche ecclesiastiche (non a caso ancora nel Quattrocento la laurea maggiormente ‘gettonata’ fu quella in diritto canonico) e, in maniera evidente a partire dal Trecento, anche quelle che potremmo chiamare, volendo ricorrere ad un anacronismo, burocratiche, gli impieghi che furono offerti prima dai comuni, che erano riusciti a conquistare, se non l’indipendenza, quanto meno un’ampia autonomia e poi, soprattutto, dalle corti dei nascenti Stati moderni, i quali abbisognavano di amministratori che sapessero di diritto. 

Nel Cinquecento - in particolar modo nella sua seconda metà - l’università conobbe, grazie anche all’affermazione del Grand Tour, in conseguenza dell’egemonia culturale europea garantita all’Italia dal lungo Rinascimento, un evidente processo di gentrification. Lo testimonia sul fronte ‘interno’, tra gli altri, il fatto che a Padova studiarono fino agli inizi del Seicento parecchi patrizi veneziani, tra i quali un manipolo, che ricoprì la carica di doge della Serenissima tra Cinque e Seicento, quasi tutti, tuttavia, senza conseguire la laurea (l’unica eccezione alla regola fu Nicolò da Ponte, dal 1578 al 1585). Peraltro fin dal tardo Cinquecento e soprattutto nel corso del primo Seicento l’affermazione dei seminaria nobilium gestiti, in particolare, dai gesuiti (ma a Venezia anche dai padri somaschi), allontanò in misura significativa dall’Ateneo l’aristocrazia, soprattutto quella veneziana. 

Come avrebbe sottolineato a metà Settecento un conte di Rovigo, Antonio Maria Manfredini, la laurea dava sì ai giovani «alcuni privilegi e qualche credito appresso il volgo e gl’idioti» e consentiva anche d’aggiungere «al nome i titoli di dottore, d’illustrissimo e di eccellentissimo»: ma «in questo secolo», continuava Manfredini, erano «per altro tutte cose ridicole», cosicché  «l’Italiano», vale a dire, in questo caso, chi apparteneva all’aristocrazia, «se ne fa beffe a segno che, quando abbia altre prerogative ed altri diritti, o sdegna dottorarsi o, se si addottora per qualche vista di privato interesse, ne abborrisce il nome e non fa uso di suo privilegio che al momento unicamente, che può recargli vantaggio».

Anche se nell’età delle riforme vi fu chi, come fu il caso di Gasparo Gozzi, s’impegnò con grande determinazione affinché l’università di Padova ritrovasse il suo ruolo di formazione culturale delle nobiltà della Serenissima, veneziana e suddita, l’obiettivo fu del tutto mancato. Nel 1770 Gozzi propose ai Riformatori dello Studio di Padova, di fatto il ministero della pubblica istruzione della repubblica marciana, l’«idea d’un così compiuto Collegio, che uguaglierebbe in grandezza, ed utilità tutte quelle Accademie che fino al presente sono state erette negli esteri Stati». Doveva essere «un luogo solo, che insieme accogliesse un buon numero di Patrizii insieme, e di Veneti Cittadini, e di Nobili dello Stato di terraferma, per esservi ammaestrati, sotto un’uguale Instituzione diretta interamente dallo Spirito, e dalle Leggi del Principato». Ma l’iniziativa di Gozzi, dopo essere stata più volte riformulata si arenò definitivamente nel 1775.

Nel corso dell’Ottocento, una volta che la stessa Restaurazione dovette prendere atto che era impossibile ritornare all’Antico Regime, la componente studentesca dell’Ateneo rispecchiò in misura maggiore di quanto fosse avvenuto nel secolo precedente le fasce superiori della società, ancorché in una chiave che appare in linea tendenziale fortemente classista. Il tetto dei duemila studenti fu superato soltanto dopo la fine della Grande Guerra, quando, grazie anche ad una maggiore affluenza dalle terre ‘liberate’, ma grazie soprattutto all’indubbia democratizzazione della società italiana provocata dal conflitto e, in modo particolare, dalla moltiplicazione degli ufficiali di complemento, quasi si raddoppiò il record prebellico di 1.878 iscritti. Se il progressivo esaurimento dell’onda lunga dei fuori corso favorita dalla guerra e la stretta classista e maschilista operata agli inizi degli anni Venti dalla riforma del ministro Gentile congiurarono nel deprimere le iscrizioni lungo un decennio, a partire dai primi anni Trenta l’Università conobbe un sensibile ampliamento delle basi sociali del suo reclutamento in una direzione medio e piccolo-borghese, nella scia, in questo caso, delle caratteristiche del regime: 4000 iscritti nel 1934-35, 6000 nel 1940-41 e quasi 9000 nel 1942-43. 

Certo, se, come avrebbe scritto il rettore Anti in una sua relazione degli anni 1940, le cause di questo primo embrione di un’Università di massa fossero state soltanto quelle «sanissime» del «naturale incremento delle nuove classi e [del]lo sviluppo industriale e sociale della Nazione», se quest’ultimo si fosse tradotto in una sana moltiplicazione delle «professioni tecniche», il rettore se ne sarebbe certamente compiaciuto. Ma le ragioni di un balzo così eccessivo non potevano che essere altre: Anti elencava quindi la sospensione delle prove di maturità, «che erano freno e filtro altamente salutari», le diffuse esenzioni dalle tasse scolastiche,  la «larga disponibilità di denaro» dei «giovani alle armi, che perciò incontrano volentieri il peso delle tasse universitarie anche per assicurarsi un onesto titolo di licenza periodica». Il risultato: si iscrivevano «giovani del tutto inadatti agli studi universitari per preparazione mentale per capacità intellettuale, attirati solo dal "buon mercato" della laurea». In particolare l’aumento degli studenti nelle facoltà umanistiche preparava valanghe di spostati. Una diagnosi, questa di Anti, che in larga misura va condivisa, ma che sottovalutava anche il fatto che le «cause contingenti», ch’egli elencava, avevano alle spalle una causa strutturale, la grande crescita degli studenti delle scuole secondarie negli anni 1930, la quale a sua volta era stata favorita da quell’ascesa sociale della piccola borghesia, che aveva connotato il regime fascista.

Le accuse di Anti contro l'Università di ‘massa’ potevano suonare anche come una confessione del paradossale fallimento per eccessivo successo della politica di assistenza degli studenti, che fin dal suo debutto quale rettore aveva perseguito con grande impegno e ampiezza di prospettive. La mensa universitaria (dodicimila pasti nel 1930-31, più di ottantamila dieci anni più tardi: le cifre indicano che, nonostante gli aumenti, continuava tuttavia a beneficiarne una minoranza alquanto ridotta di studenti), l’ambulatorio gratuito, la Casa dello Studente Principe del Piemonte, poi Arnaldo Fusinato («la nostra pupilla» fu inaugurata nel 1935: disponeva di un centinaio di stanze), l’Ufficio informazioni dell'Opera universitaria: queste iniziative erano senza dubbio il frutto della convinzione, che discendeva da un confronto con il mondo anglosassone,  che le Università italiane fossero «molto arretrate […] per ciò che è organizzazione della vita studentesca», ma tenevano anche conto delle radici sociali degli universitari. 

 Nel 1932 il rettore puntava a «ridurre al minimo», tramite mense, esenzioni dalle tasse ecc., il costo degli studi, essendo convinto che «per la media borghesia che è e sarà sempre la grande fornitrice di aspiranti alle professioni liberali», tale costo fosse «un peso molto grave». Ma nel 1937 Anti doveva invece proclamare, recependo uno slogan recente del regime, che  «anche nel campo universitario si deve andare verso il popolo»: tra gli obiettivi della rivoluzione fascista vi doveva essere quello di «adeguare  l’organismo universitario alle esigenze e alle possibilità del popolo italiano, indipendentemente dai mezzi pecuniari dei singoli». Una tesi, che riprenderà quattro anni più tardi, questa volta in una chiave decisamente autocritica: l’Università spendeva molto a favore degli studenti, ma in modo disordinato; la conclusione era che «l’assistenza che si esercita [non] è sufficiente ad assicurare che qualsiasi povero d’ingegno possa con tranquillità affrontare gli studi universitari». Il rettorato Anti si chiudeva sotto il segno di una serie di vistose contraddizioni: proprio nel momento in cui l’aumento del numero degli studenti poteva far pensare che «l'organismo universitario» si fosse adeguato «alle esigenze e alle possibilità del popolo italiano», ci si accorgeva che, da una parte, il «povero d’ingegno» continuava ad essere penalizzato dal sistema e che dall’altra «non si tratta[va] di aumento sano e tanto meno benefico all’economia nazionale», vale a dire che l’Università di ‘massa’ creata dal regime era una sorta di bolla destinata a sgonfiarsi più o meno malamente.

Alquanto diversa, senza dubbio, la storia della ‘vera’ Università di massa esplosa nella seconda parte del lunghissimo rettorato (1949-1968) di Guido Ferro, un altro rettore che aveva da tempo coltivato un assai lungimirante progetto di espansione non solo edilizia dell’Ateneo. Ma si tratta di un argomento che esula dagli obiettivi di questo intervento.

Piero Del Negro

© 2018 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012