UNIVERSITÀ E SCUOLA

Università, a quando le quote rosa?

È possibile spiegare scientificamente la mancanza di pari opportunità tra uomini e donne in uno specifico ambito lavorativo? La risposta è in uno studio pubblicato da Science, che tenta di dimostrarlo in uno dei settori che suscitano, sul tema del reclutamento, il più intenso dibattito: la carriera universitaria. Un gruppo di ricercatori statunitensi guidati da Sarah-Jane Leslie (dipartimento di filosofia, Princeton University) e dallo psicologo Andrei Cimpian (University of Illinois) ha interpellato un campione di docenti, giovani ricercatori e dottorandi in rappresentanza di 30 diverse discipline presso atenei americani pubblici e privati. Lo scopo era capire se esistesse qualche fattore specifico che ogni comunità interpellata possiede nella percezione della sua materia, in grado di influenzare in modo significativo la proporzione di uomini e donne tra gli studenti che conseguono un Ph.D. (dottorato). In altre parole, se le convinzioni diffuse all’interno di ogni settore accademico sulle caratteristiche di una specifica disciplina possono condizionare le opportunità d’accesso in quel campo di studi. La ricerca, dunque, non si focalizza tanto su possibili comportamenti discriminatori attivi, quanto sui fattori psicologici, sull’immagine che di una certa disciplina ha chi la pratica a livello accademico e quanto questo può, indirettamente, sfavorire le donne che aspirano a far carriera in un certo settore. 

Per verificare la sua ipotesi, il gruppo di ricerca ha interpellato il campione di accademici su quattro caratteristiche della loro materia, e ha provato a verificare se, in tutte le discipline, vi fosse una correlazione evidente tra una certa convinzione maggioritaria e la minor presenza femminile in quel campo.

Una delle ipotesi riguardava il rapporto tra presenza femminile e necessità di lavorare per un alto numero di ore settimanali: in questo caso, nelle materie che, a detta degli interpellati, richiedevano l’impegno più intenso non è stata riscontrata alcuna relazione con la maggiore o minore presenza femminile. Così come nessun nesso è stato registrato per la seconda ipotesi di lavoro: il tasso di selettività, la proporzione tra numero di candidati agli studi dottorali in una certa disciplina e numero di studenti effettivamente ammessi. Dunque, le discipline che, nella percezione degli accademici, sono più selettive, non presentano differenze significative nella presenza dei due sessi.

La terza ipotesi riguardava l’attitudine a ragionare in modo più sistematico ed astratto rispetto all’intelligenza emotiva basata su empatia e capacità d’intuizione: anche in questo caso, non si è trovata correlazione tra quanto una comunità accademica ritenga più importante nella propria materia una delle due capacità e il tasso di presenza femminile in quella disciplina.

L’unica ipotesi che, secondo gli autori, esercita una effettiva influenza sulla composizione uomo/donna di un settore disciplinare riguarda l’idea di quanto il successo in una materia sia legato, più che agli studi, a un talento naturale. Gli studiosi hanno verificato che in tutti gli ambiti accademici in cui sia prevalente l’opinione secondo cui per eccellere è indispensabile una vocazione, un’attitudine che prescinde dall’impegno profuso, la presenza femminile tra coloro che ottengono il dottorato si riduce drasticamente. La ricerca, tramite ulteriori interviste, cerca di chiarire come il pregiudizio si insinuerebbe nella mentalità degli accademici delle materie “ad alto tasso di vocazione”. Laddove è diffusa la convinzione che il talento sia la chiave per emergere in una materia, lì la maggioranza degli accademici intervistati ritiene le donne meno adatte per quel campo di studi; e, allo stesso tempo, riconosce che quel settore non presenta condizioni d’accesso favorevoli per le donne. La catena di pregiudizi, quindi, finirebbe per scoraggiare le donne dall’insistere in quella determinata materia. Qualche esempio? Nelle discipline scientifiche, il massimo grado del binomio “più talento/meno donne” si registra per fisica e matematica, mentre “meno talento/più donne” è presente con maggiore intensità per biologia e neuroscienze. Nelle altre discipline, il “genio al maschile” è tipico della filosofia e della composizione musicale, mentre la “banalità del femminile” riguarda soprattutto le scienze della formazione e la psicologia.

Sulla base dei risultati ottenuti, gli autori dello studio hanno verificato se potessero esserci altri gruppi sociali colpiti da simili effetti degli stessi pregiudizi. L’ipotesi “il gruppo X è considerato meno dotato di talento naturale, e quindi in certe discipline è ostacolato dal pregiudizio” è stata applicata, oltre che alle donne, anche agli americani di origine asiatica e africana. Nel caso degli asiatici, la correlazione non è stata rinvenuta; nel caso degli afroamericani, invece, la connessione era evidente. Gli autori spiegano questa analogia con il fatto che il pregiudizio dello scarso talento naturale non riguarderebbe l’immagine pubblica degli asiatici, mentre colpirebbe in pieno gli afroamericani, esattamente come avviene per le donne.

In conclusione, gli autori raccomandano ai docenti che desiderano incrementare la rappresentanza di donne e minoranze nel loro settore di combattere la mentalità del “talento innato” enfatizzando, piuttosto, l’importanza della dedizione agli studi come base per il successo nella carriera accademica. Meno caccia al genio, perciò, e più risalto al valore del lavoro.

Martino Periti

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