UNIVERSITÀ E SCUOLA

Università e ricerca scientifica temono "Brexit"

Immaginate tutti gli studenti italiani (e viceversa) che ogni anno decidono di affollare l’Inghilterra all’interno dei programmi di scambio Erasmus tra le università. Ecco: dal 23 giugno 2016 potrebbe non essere più possibile. Almeno non nella forma che fino a oggi tutti noi conosciamo.

È solo uno degli aspetti di quanto potrebbe accadere se gli inglesi decidessero di votare sì all’uscita del loro Paese dall’Unione europea: i 2.296 studenti italiani (dati del 2014) che ogni anno affollano gli atenei inglesi (la terza meta favorita dagli studenti dello scambio Erasmus) sarebbero costretti a rimanere a casa.

L’effetto “Brexit”, insomma, non influisce solo sui già delicati sistemi economici e commerciali dell’Unione europea, ma anche sul sistema educativo con ricadute che sarebbero pesanti, soprattutto per l’Inghilterra stessa.

L’esempio degli scambi studenteschi è solo uno tra quelli posti all’attenzione dalle principali università di Oltremanica, che si stanno spendendo in vibranti appelli per evitare di ricevere – a loro dire – “danni inestimabili, anche a livello economico, dall’uscita dell’Inghilterra dall’Ue”. Dibattiti pubblici si sprecano, mentre eminenti scienziati mettono in guardia: “Brexit significherebbe un danno colossale per la ricerca scientifica”. A dirlo il fisico Stephen Hawking, tra i 150 scienziati promotori di una lettera aperta in cui si sviscerano gli effetti positivi che l’appartenenza all’Ue ha dato e continuerebbe a dare alla ricerca scientifica inglese.

“L’Unione europea – si legge nel testo – ha aiutato l’Inghilterra in due modi cruciali: da una parte i fondi internazionali hanno aumentato il livello e la qualità della ricerca scientifica, dall’altra il nostro Paese recluta gran parte dei suoi ricercatori dall’Europa continentale, compresi coloro che vincono premi promossi dalla Ue e decidono di portare i loro fondi qui. Essere in grado di attrarre questi talenti, significa il mantenimento futuro degli elevati standard inglesi nella ricerca scientifica”. Perderli – gioco forza – significherebbe rendere vulnerabile un intero sistema cardine del Paese.

“La ricerca condotta in collaborazione con altre realtà internazionali – spiega Michael Arthur, presidente del London University college (UCL) – ha il 50% in più delle possibilità di ottenere maggiori citazioni rispetto a quelle condotte nella sola Inghilterra”.

 Ma c’è chi parla anche dei rischi nell’occupazione inglese, visto che la mancanza dei finanziamenti europei potrebbe avere ricadute negative per tutte quelle imprese che gravitano attorno ai lavori di ricerca degli atenei inglesi: “Negli ultimi 10 anni – afferma Steve Smith, prorettore della università di Exeter – i fondi Ue hanno permesso la realizzazione di centri di ricerca e campus che hanno trasformato il sistema economico della regione”. L’università di Exeter parla di una ricaduta positiva pari alla creazione di 11.300 posti di lavoro nella regione e un aumento pari all’1% del suo prodotto interno lordo. Con Brexit – questa la tesi sostenuta – diminuirebbe l’occupazione indotta dagli investimenti universitari (e dai fondi Ue conseguenti).

E poi ci sono gli studenti e quegli scambi Erasmus citati all’inizio. Secondo Dame Julia Goodfellow, prorettore della università del Kent non si deve sottostimare l’importanza dell’esperienza di studio all’estero. Cita un dato su tutti, preso da una ricerca condotta dalla Commissione europea: “Sappiamo che gli studenti che prendono parte al programma Erasmus hanno metà delle possibilità di essere disoccupati sul lungo periodo – spiega – e allo stesso tempo chi studia all’estero è molto più preparato a una esperienza di lavoro di tipo internazionale”.

Su tutto aleggia l’ombra della Svizzera che nel 2014 – dopo la decisione di limitare i permessi di dimora per stranieri, inclusi i cittadini Ue – si è vista bloccare dall’Unione europea una serie di accordi tra cui quelli su ricerca e istruzione, compresi la partecipazione ai programmi di Horizon 2020 e di Erasmus+. I ricercatori e i docenti inglesi chiedono di non fare l’errore della Svizzera, al grido di “Britain stronger in Europe”.

Mattia Sopelsa

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