SOCIETÀ
Quella voglia di secessione
Catalogna, Scozia e in parte la Brexit; domani forse Veneto, Lombardia e Baviera: in Europa sembra soffiare un forte vento di autonomismo, che in diversi casi può sfociare in veri e propri movimenti secessionisti. “Non è solo un problema europeo e non nasce oggi – spiega lo storico della londinese Queen Mary University Donald Sassoon –. Pensiamo solo ai ben cinque Paesi sorti dall’India britannica, o agli stati nati recentemente in Africa, come l’Eritrea e il Sudan Meridionale”. Un processo che si dispiega a livello mondiale, ma che comunque sembra interessare in maniera particolare il nostro Continente: “Qui i confini vengono costantemente ridisegnati da almeno 200 anni – continua lo studioso britannico –; consideriamo ad esempio quello che è successo con la fine della seconda guerra mondiale con la scomparsa dell’Impero Ottomano, di quello Austro-Ungarico e di quello zarista, o con l’indipendenza dell’Irlanda nel 1922. Allo stesso tempo c’è anche il processo contrario, ad esempio con l’unità italiana e quella tedesca nella seconda metà dell’Ottocento”.
Un continuo movimento di scomposizione e di riaggregazione che sembra aver ripreso vigore con la fine della guerra fredda e che oggi mette in discussione gli equilibri internazionali. Di questo si è parlato al convegno Secessioni: Politica, storia, diritto, organizzato a Padova dal Centro di ateneo per la storia della resistenza e dell’età contemporanea e dal dipartimento di Scienze politiche, giuridiche e studi internazionali. Il caso della Catalogna è soltanto l’ultimo esempio di un insieme di crisi che sembrano portarci al superamento degli assetti statuali consegnatici dalla storia, tanto da portare il presidente della Commissione Europea Jean Claude Juncker (pur provenendo a sua volta da un ministato) a dire recentemente di non volere “un’Europa divisa in 95 staterelli”.
“A lungo il tema della secessione ha costituito un vero e proprio tabù per il diritto e per la stessa politica, almeno quella che non voleva affrontare il tema da un punto di vista puramente propagandistico – ha spiegato durante il suo intervento Giuseppe Zaccaria, docente di teoria generale del diritto all’università di Padova –, giacché il presupposto implicito di ogni discussione sulla secessione era la sua indesiderabilità”. Presupposto peraltro suffragato sia dal diritto internazionale (compreso quello europeo) che dai diritti interni degli stati, i quali pur prevedendo spesso norme di tutela nei confronti di alcune minoranze generalmente non riconoscono espressamente un diritto all’autodeterminazione delle comunità substatali.
Un tema che oggi assume aspetti in parte nuovi a causa della crisi che investe gli stati e l’idea di democrazia rappresentativa che essi hanno alla base. Spesso oggi – ha messo in luce Alberto Martinelli, docente emerito di scienza politica all’università di Milano – “i governi nazionali appaiono in difficoltà: troppo piccoli per gestire fenomeni come globalizzazione e flussi migratori, e allo stesso tempo troppo grandi e lontani per intervenire concretamente sulla vita dei cittadini”. Una situazione che porta a una crisi non solo di legittimazione ma anche di efficacia, dato che “oggi i governi fanno molta fatica a elaborare strategie non solo di lungo ma anche di medio periodo, invischiati come sono in un processo di ‘elezioni continue’ che non dà loro la possibilità di elaborare risposte concrete ai problemi che si trovano ad affrontare”.
Di qui anche la tentazione di organizzarsi in comunità politiche sempre più piccole e omogenee, che diano l’impressione di tagliare la catena che separa il cittadino dalle istituzioni: è proprio il caso della Scozia e soprattutto della Catalogna, i cui leader per giustificare i propri obiettivi – come ha illustrato dalla filosofa del diritto Costanza Margiotta – hanno spesso preferito invocare i concetti di democrazia diretta e di consenso per giustificare i propri obiettivi (il Dret de Decidir invocato dagli indipendentisti catalani), piuttosto che quello tradizionale di autodeterminazione dei popoli. Con esiti per certi versi paradossali, dato il carattere concettualmente conservatore dei movimenti secessionisti, “che mirano a formare a loro volta un’entità di tipo statuale, adottandone la stessa ideologia e senza ripensare la forma stato né l’istituto del confine”.
Un atteggiamento che dunque dallo sfondo il fantasma del nazionalismo, “che nasce nell’Ottocento anche per creare nuove forme di solidarietà, alternative a quelle tradizionali della chiesa e del villaggio – aggiunge Martinelli –. Oggi di fronte allo spaesamento della globalizzazione e alla crisi delle ideologie la nazione sembra essere di nuovo una soluzione: ‘quando tutto fallisce, c’è la nazione’ diceva Eric Hobsbawn”.
Una tendenza che oggi si salda con un altro fenomeno caratteristico della nostra epoca: il populismo inteso come contrapposizione ideologica tra popolo, considerato per definizione buono e onesto, ed élites rappresentate come inefficienti e corrotte. Quando il populismo – ragiona Martinelli – riesce a innestarsi su ideologie sperimentate come il nazionalismo, questo accresce la sua capacità di organizzare il consenso: lo vediamo oggi non solo nei movimenti secessionisti veri e propri ma anche nei movimenti populisti europei, quasi tutti caratterizzati dal nazionalismo antieuropeista. Del resto oggi la ‘secessione’ paventata e agognata da molti è soprattutto quella dall’Unione Europea. Una situazione che non va affatto sottovalutata: come diceva François Mitterrand, magari in termini un po’ enfatici, “le nationalisme c’èst la guerre”.
Daniele Mont D’Arpizio