SCIENZA E RICERCA

Zika, cosa si sa del virus che spaventa le Olimpiadi

Ormai che l'epidemia è stata dichiarata ufficialmente esaurita dall'Organizzazione mondiale della sanità, Ebola è noto non solo agli addetti ai lavori, ma anche alla persona media. Il virus si è aggiunto alla schiera di “micro” patogeni la cui esistenza è uscita dai confini dei laboratori ed è stata abbracciata dalla conoscenza popolare. La peste del 1630 di manzoniana memoria, la pandemia di influenza “spagnola” che nel biennio '18 -'20 del secolo scorso falcidiò in Europa più vittime della Grande Guerra, e, appunto, l'epidemia di Ebola in Africa occidentale, sono sole alcune di note emergenze sanitarie di cui tutti sono informati, chi più chi meno.

Grazie soprattutto alla paura, del tutto infondata, di noi europei di essere contagiati dalle ondate migratorie provenienti dalle regioni subsahariane flagellate dall'epidemia, i riflettori mediatici, aiutati da un pizzico di propaganda politica, sono stati puntati sulla Liberia e sulla Sierra Leone trasmettendo immagini di disastri umanitari provocati da un microscopico virus che deve il suo nome ad un corso d'acqua della foresta del Congo. Le librerie rispolverano libri di fine del XX secolo (tra tutti “Hot zone” di Richard Preston) che raccontano dei drammatici momenti delle epidemie passate o propongono nuove cronache delle vicende sierraleonesi come “Zona Rossa” di Roberto Satolli e Gino Strada, edito da Feltrinelli nel 2015.

Un'altra epidemia meriterebbe gli onori della cronaca, sia per il fatto che è ancora in corso e non sembra volersi fermare sia perché per curarne la malattia non esistono trattamenti specifici. Si tratta dell'epidemia del virus Zika. Nonostante dal febbraio di quest'anno, nel solo Brasile, siano stati registrati 32.000 casi di contagio da Zika, poche notizie sono giunte all'altra sponda dell'Atlantico su questo patogeno e sui suoi effetti. Cos'è Zika? Cosa sappiamo sull'identità di questo invisibile assemblaggio di proteine e materiale genetico?

“Zika in realtà è noto da quasi 70 anni alla comunità scientifica”, ricorda il dottor Fernando Bozza, ricercatore sul virus Zika alla fondazione “Oswaldo Cruz” con sede in Rio de Janeiro. Nel 1947, lungo le sponde ugandesi del lago Victoria, un gruppo di studiosi dell'agente patogeno della febbre gialla individuò un “agente filtrabile” (come erano chiamati all'epoca i virus) nel siero di un macaco sentinella del genere rhesus, nella foresta di Ziika. Cinque anni dopo lo stesso virus fu riscontrato nel siero degli abitanti dell'area limitrofa, pur non evidenziando alcuna patogenicità da parte di Zika. Dal 1952 non si ebbero particolari notizie sul virus per circa mezzo secolo, fino alla prima epidemia di Zika nell' isola di Yap nel 2007, in Micronesia. Solo allora si cominciò a comprendere che il virus poteva rappresentare un vero pericolo per l'essere umano.

Di per sé Zika non rappresenta un serio rischio per la salute: per quanto la trasmissione per via sessuale sia possibile, il virus predilige di gran lunga l'aiuto di un insetto per penetrare nel nostro organismo. Assieme ad altri virus dai nomi esotici (Dengue, Chikungunya) Zika infetta le ghiandole salivari di Aedes albopticus, una zanzara che, assettata dei nutrienti del sangue umano, punge e inietta il virus. Lo sfortunato infetto ha buone possibilità di sfuggire al virus che, nel 80% dei casi, non provoca manifestazioni di alcun genere, quasi più innocuo di un raffreddore. Osservando i primi segni clinici nel 20% rimanente, apparentemente non sembra che Zika sferri un attacco micidiale al nostro corpo: dopo qualche giorno in cui il virus si diffonde silente attraverso il sangue, la temperatura corporea progressivamente comincia a salire, facendo segnare alla colonnina di mercurio del termometro non più di 38,5 C. Questo breve episodio febbrile, che solitamente in pochi giorni si risolve, è accompagnato da esantema: il dottor Bozza mostra immagini di pazienti le cui mani, braccia e petto sono segnate da piccole macchie rosse, che fanno pensare ad una scottatura presa in riva al mare più che ad un'infezione di un virus. In una piccola percentuale dei casi, se il paziente infetto da Zika è particolarmente sensibile al virus, il corredo dei sintomi è completato da dolori alle articolazioni e da infiammazione alle congiuntive degli occhi. Non era stato notato molto altro studiando i sintomi degli abitanti infetti dell'isola di Yap: tenere sotto controllo gli habitat naturali per le larve delle zanzare (stagni di acqua piovana, pozzi e cisterne) e prevenire la puntura di Aedes erano i principali trattamenti per mettere un freno all'epidemia, dato che né all'epoca né ad oggi è a disposizione un trattamento specifico per i malati.

Per il vero e proprio dramma umano bisognò aspettare poco meno di sette anni. Nel 2013 il virus colpì la Polinesia francese e meno di due anni dopo l'America del Sud, e manifestò la sua pericolosità fino ad allora celata. Con un meccanismo ancora non noto il sistema immunitario di alcuni polinesiani e brasiliani infetti montò una risposta immunitaria contro il proprio sistema nervoso periferico. Le cellule che normalmente si comportavano da guardiani del nostro organismo, monitorandolo e proteggendolo da tutto ciò che non è “self”, dopo l'infezione da Zika in taluni casi persero la bussola, puntando ai nervi periferici, le autostrade degli impulsi elettrici che comandano ai muscoli di camminare, di prendere in mano un bicchiere per bere od una forchetta per mangiare ed in generale permettono di avere una vita autonoma. I linfociti ed i macrofagi infiammarono con una tempesta chimica i nuclei dei nervi spinali, addensati nella colonna vertebrale in una struttura dall'elegante geometria simmetrica delle ali di una farfalla, ed erosero con inesorabile lentezza la guaina di grasso che riveste e protegge i filamenti dei nervi stessi, riducendoli a fili scollegati, inadatti a portare l'auspicato impulso al muscolo corrispondente. Georges Gullian e Jean Alexandre Barrè descrissero tale sindrome in due pazienti (non infettati dal virus Zika) nel lontano 1916. Da allora questa malattia rara, associata alle volte ad infezioni virali, è rimasta un mistero dal meccanismo molecolare ancora ignoto: il paziente infetto da Zika e colpito dalla sindrome di Gullian–Barrè nel tempo si ritrova nella terminale condizione di non poter nemmeno respirare in autonomia.

Gli “orrori di Zika”, come furono definiti gli insulti patologici del virus da alcune testate degli Stati Uniti, non si limitano alla periferia del sistema nervoso. Al contrario, essi si mostrano a livello centrale, nelle prime fasi di vita di un essere umano, quando da un cilindro di neuroni e fibre il nostro cervello si espande, piega e contorce. Nella Polinesia francese, un nato da madre positiva a Zika ogni 100, pari ad una frequenza di 50 volte superiore alla media, presentava “microencefalia”, dal greco: testa piccola. Il diametro del cranio di alcuni neonati era troppo piccolo per consentire un corretto sviluppo. In una finestra temporale relativamente ristretta, cioè i primi 3-4 mesi di gravidanza, l'infezione del virus risultava teratogena. Come il temuto talidomide blocca e storpia il corretto sviluppo degli arti nel feto, così Zika, penetrando nel primordiale cervello, ne inibisce la crescita e calcifica alcune strutture cerebrali. Il famigliare aspetto solcato di un encefalo, segno distintivo di intricate reti di circuiti cerebrali tessute nei tempi più che biblici dell'evoluzione, in questi piccoli malati lascia il posto ad una massa perlacea, liscia e dal volume ridotto.

All'inizio del 2016 conferme sperimentali sulla temibile azione mutilante di Zika giunsero dal laboratorio di Jason Dang, all'università di San Diego. Usando le star della medicina del XXI secolo, cellule staminali embrionali, Dang riuscì a riprodurre un encefalo organoide, in parole povere, un cervello umano in miniatura, da infettare con Zika e da confrontare con un organoide “sano”. Mentre quest'ultimo si sviluppò secondo ritmi e parametri previsti, il piccolo cervello infettato fu decisamente più timido, raggiungendo dimensioni insoddisfacenti: Zika, interferendo con l'espressione di una proteina che le cellule espongono sulla loro superficie, diventava teratogeno per l'organoide. Che il virus Zika, riscontrato in tutte le cellule di cervelli fetali microencefalici, abbia un'azione analoga anche in vivo ormai è ormai ben più di un sospetto, rafforzato da prove raccolte direttamente sul campo. Studiando 72 donne gravide e infette da Zika si scoprì che il 29% di queste davano alla luce un figlio od una figlia con i tratti distintivi della microcefalia e con pesanti conseguenze neurologiche.

L'arma temibile di Zika è proprio la sua banalità: i sintomi sono lievi, spesso si risolvono semplicemente aspettando che il sistema immunitario completi la sua attività di spazzino dell'organismo e i segni clinici non sono distintivi ma risultano confondibili con quelli di altri virus anche agli occhi di un medico rodato. Spesso chi è infetto è più preoccupato di sfamare la famiglia con un buon pescato nei cristallini atolli della Polinesia o di sbarcare il lunario in una favela brasiliana: recarsi dal dottore per un po' di febbre ed un rash cutaneo non viene spesso neanche preso in considerazione.

I monatti, descritti dal Manzoni come sfortunate figure che trasportavano i cadaveri degli appestati deturpati dai segni della malattia, ed i lazzaretti furono ben fissi nell'immaginario collettivo come il segno palese di una comunità colpita da Yersinia pestis. Dall'industriale al contadino, per quanto vano potesse essere il gesto, chiunque imparò a riconoscere i segni fulminei dell'influenza spagnola e a chiamare il medico perché accorresse al malato. Se Ebola per le popolazioni locali colpite era uno stigma dai segni ben evidenti e debilitanti per chi veniva infettato, Zika rappresenta l'altra faccia della medaglia: un male mite, poco eclatante ma che silenziosamente può rendere inermi e mutilare neonati. 

Tommaso Vezzaro

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