SOCIETÀ

L'Italia è un Paese razzista?

Ha sparato a sei persone ferendole più o meno gravemente. Tutte erano di origine africana. È quanto è accaduto nei giorni scorsi a Macerata per mano di Luca Traini, ventottenne incensurato che ha fatto fuoco dalla sua auto in diversi punti della città. Ha concluso la sua corsa davanti al monumento dei caduti, dove è stato arrestato con una bandiera tricolore al collo. L’accusa sarebbe di strage aggravata dal razzismo. Sono trascorsi solo sette anni da un’altra strage, quella di Firenze del 13 dicembre 2011, in cui furono uccisi due senegalesi e altri rimasero feriti per mano di Gianluca Casseri. Se questi sono i fatti eclatanti che finiscono sulle colonne dei giornali, episodi più o meno gravi di razzismo non sono del tutto infrequenti anche nella vita di ogni giorno. E più evidenti negli ultimi anni, in seguito al flusso migratorio che ha interessato il nostro Paese.

Secondo Renzo Guolo, prorettore e professore di sociologia  dei processi culturali all’università di Padova, l’immigrazione costituisce un problema sia di natura politica che culturale. Esistono politici che non affrontano la questione nella sua complessità, ma alimentano piuttosto atteggiamenti xenofobi. “In generale – osserva Guolo – le reazioni ai fatti di Macerata sono state di condanna, ma non è mancato chi ha mostrato quasi comprensione nei confronti delle ragioni di chi ha compiuto il gesto, pur non giustificando l’accaduto. Questo atteggiamento è significativo, perché sta a indicare che una parte della società considera inaccettabile la presenza dell’immigrato. Il nodo sta nel capire come si sia formata questa immagine negativa”.  

Non si deve solo accogliere, ma anche governare l’accoglienza. Le incertezze generate dalla globalizzazione e dalla modernità sono amplificate da presenze talora problematiche. “Esiste un’insoddisfazione generale, perché una parte della popolazione non si sente più protetta socialmente e scarica la propria rabbia sullo straniero, ne fa un capro espiatorio delle insoddisfazioni verso l’assetto complessivo del Paese dal punto di vista economico-sociale in primo luogo e poi anche politico. Lo straniero che viene preso a bersaglio è una figura che raccoglie in sé e scatena una serie di tensioni che in una situazione normale non avrebbe ragion d’essere. L’immigrato diventa, dunque, un capro espiatorio di situazioni più profonde”. Esistono tensioni sotterranee che percorrono la società italiana e che derivano proprio dalla difficoltà di gestire l’immigrazione, generando una situazione percepita dalla maggior parte della popolazione come non governata.

Cosa fare? “Il problema – continua Guolo – non è più il numero di stranieri accolti nel nostro Paese. Si deve spostare la discussione sul concetto di integrazione culturale”. E a ragionarci devono essere i politici, le associazioni, gli esperti che si occupano di queste tematiche, chi lavora nel settore. L’Italia è un Paese che non ha mai sviluppato un ragionamento sui modelli di integrazione culturale, come hanno fatto altri Paesi europei pur con tutti i limiti e i pregi che possono avere. Il vero nodo è riuscire a produrre convivenza”. La popolazione invece si sente abbandonata a se stessa dalle élite politiche che cavalcano l’onda della paura dello straniero o invitano ad essere accoglienti. Ma questo, osserva il docente, non può funzionare.

“Finora il processo italiano legato all’immigrazione è ruotato intorno a due tematiche principali, lavoro e ordine pubblico: gli immigrati sono ritenuti ‘utili’ perché contribuiscono a una quota consistente del Pil, oppure possono costituire un problema di ordine pubblico. Come se nel mezzo non ci fosse nulla. In realtà bisognerebbe ragionare sul modo in cui comunità portatrici di identità culturali proprie possano convivere”. Secondo Guolo la convivenza va gestita sul territorio, nella quotidianità e questo In Italia è mancato. La scuola in questi anni ha svolto sicuramente un ruolo importante in questo senso, è stato un fertile terreno d’incontro, ma questo è avvenuto in una logica di supplenza istituzionale rispetto alla politica. La scuola ha prodotto nei fatti politiche di integrazione, ma quasi indipendentemente dagli orientamenti dei diversi governi.

Il problema è complesso è nessuno può dire quale sia la via da seguire. Guolo porta qualche esempio europeo. La Franciaha attivato politiche di cittadinanza molto generose almeno fino a qualche anno fa, ma nel contempo ha prodotto un modello di assimilazionismo che si reggeva quasi su uno scambio tra cittadinanza e rinuncia dei particolarismi dell’identità culturale nella sfera pubblica. Questo però ha generato conflitti. E la Francia non è riuscita a realizzare ciò che si proponeva.

Si pensi poi alla Gran Bretagna. Il Paese ha fatto una scelta diversa, quella del multiculturalismo, che tutelasse le differenze culturali nella sfera pubblica a un livello forse impensabile per la realtà italiana. Alla fine, però, ciò che si è realizzato in Gran Bretagna è una “convivenza tra comunità non comunicanti”. Il terreno unico su cui ci si riconosce è la libertà, che comprende anche la libertà di rimanere ben distinti.

Quello dell’integrazione è un problema complesso che l’Italia non ha mai affrontato. “Nessuno finora ha considerato la necessità di gestire la convivenza trovando un terreno di regole e valori comuni. In Italia si è prodotto un ‘assimilazionismo senza assimilazione’. Si è chiesto agli immigrati di assimilarsi ai valori della società italiana. Questa richiesta però non poteva essere completamente soddisfatta, perché da un lato non aveva il rinforzo dello scambio politico sulla cittadinanza, dall’altro quest’assimilazione richiesta (ma mai avvenuta) ha fatto sì che nei fatti si tollerasse una certa separatezza in chiave comunitaria che si realizza all’interno delle città”.

Monica Panetto

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