SCIENZA E RICERCA

Anticorpi e contact tracing: cosa ci dice la seconda parte dello studio di Vo'

Gli anticorpi delle persone esposte al virus SARS-CoV-2 durano per almeno nove mesi, chi condivide la stessa abitazione con un soggetto positivo ha circa il 25% di probabilità di risultare contagiato e il contact tracing, almeno nelle modalità in cui è stato condotto finora, da solo non ha un impatto soddisfacente nel contenimento dell’epidemia.

Sono queste le principali indicazioni emerse dalla seconda parte dello studio condotto sulla popolazione di Vo’ e pubblicato nei giorni scorsi sulla rivista Nature Communications. Il lavoro, intitolato SARS-CoV-2 antibody dynamics and transmission from community-wide serological testing in the Italian municipality of Vo’, è stato  realizzato da un team di ricercatori dell’università di Padova e dell’Imperial College di Londra e ha consentito di ottenere nuove informazioni sulle dinamiche di trasmissione del patogeno e sulla persistenza degli anticorpi, fornendo anche un primo riferimento che può risultare importante anche nelle valutazioni sul proseguimento della campagna vaccinale.

La prima parte dello studio di Vo’, pubblicato l’estate scorsa su Nature, aveva rivelato, quando ancora questa conoscenza non era stata acquisita in modo chiaro, che una quota rilevante delle infezioni (oltre il 40%) rimane in forma asintomatica, senza che vi siano però differenze rilevanti nella carica virale rispetto a chi sviluppa sintomi. Un elemento che suggerisce come il virus si avvalga anche delle persone asintomatiche per diffodersi tra la popolazione.

Un altro punto emerso dalla precedente pubblicazione era quello relativo all’efficacia del distanziamento sociale nell’interruzione delle catena di trasmissione del contagio: questo piccolo paese sui colli euganei, con circa 3200 abitanti, era stato il primo a far cessare ogni contatto con l’esterno per evitare che l’infezione dilagasse.

Il primo campionamento, con i tamponi nasofaringei eseguiti sull’intera popolazione, aveva permesso di scoprire che alla fine del febbraio 2020 circa il 3% degli abitanti  era già contagiato (un dato molto significativo per un paese che, a livello di occasioni di contatto e di scambi internazionali, sembrava più protetto rispetto a una grande città). Ma in poco tempo l’indice riproduttivo del virus R0, ovvero il numero di individui che ogni positivo infetta, era calato drasticamente, confermando che le misure di contenimento messe in atto avevano portato i risultati auspicati.

Questa seconda parte dello studio si è invece concentrata sull’estensione temporale della risposta anticorpale tra i soggetti che erano risultati positivi al tampone o ad un precedente test sierologico e il dato più incoraggiante è che a novembre 2020, quindi a circa nove mesi dal focolaio di Vo’, il 98,8% delle persone presentava ancora una quota rilevabile di anticorpi, senza che vi fossero differenze di rilievo, nè a livello di quantità nè a livello di durata, tra chi aveva contratto il virus in forma asintomatica e chi invece aveva sviluppato sintomi.

Inoltre, sebbene lo studio abbia confermato che gli anticorpi tendono a diminuire progressivamente nel tempo, è stato anche osservato che poco meno del 20% dei soggetti ha invece fatto registrare un aumento marcato del titolo anticorpale. Segno che in caso di nuova esposizione al virus la risposta immunitaria è capace di riattivarsi, mettendo in moto i meccanismi legati alle cellule della memoria. 

Per effettuare in modo più completo l'indagine sugli anticorpi i ricercatori hanno effettuato tre tipi di test immunologici con una metodologia che è andata alla ricerca di diversi antigeni virali, includendo sia la proteina spike (S), sia la proteina N, il nucleocapside. Inoltre nel laboratorio di Biosicurezza di livello 3 dell'università di Padova sono stati effettuati anche i test sugli anticorpi neutralizzanti, cioè quegli anticorpi che sono capaci di legarsi al virus ed impedirne l'ingresso nelle cellule. 

Abbiamo ripercorso i risultati più significativi della nuova pubblicazione scientifica con il professor Enrico Lavezzo, co-autore dello studio e docente del dipartimento di Medicina molecolare dell'università di Padova e con il professor Andrea Crisanti, direttore dello stesso dipartimento e coordinatore dell'intera linea di ricerca che si è svolta a Vo' e che sta tuttora continuando con l'obiettivo di comprendere anche i fattori genetici che possono avere un ruolo nella suscettibilità al contagio e nel decorso dell'infezione. Insieme a Chiara Cosma, ricercatrice dell'U.O.C. Medicina di laboratorio dell'azienda ospedaliera di Padova e Vittoria Lisi, tecnico sanitario di laboratorio biomedico dell'U.O.C. di Microbiologia e virologia, abbiamo inoltre approfondito alcuni aspetti specifici legati all'attività di processamento dei test sierologici e alla realizzazione delle analisi per la ricerca degli anticorpi neutralizzanti.

Servizio, riprese e montaggio di Barbara Paknazar

Lo studio di Vo': gli inizi 

"Con questo studio - introduce il professor Enrico Lavezzo - abbiamo continuato a monitorare la popolazione di Vo’ che abbiamo seguito fin dai primi momenti della pandemia. In particolare, nella prima fase dello studio abbiamo monitorato tutti gli abitanti con dei tamponi molecolari per capire quale fosse effettivamente la quota di popolazione che era positiva al virus, anche in assenza di sintomi, e vedere l’effetto del lockdown implementato a Vo’, per primo in Italia insieme ad altri comuni della Lombardia. L’obiettivo era quindi anche valutare, a distanza di circa due settimane dall’inizio alla fine del lockdown, quale fosse stato l'impatto delle misure restrittive sulla trasmissione virale. La prima parte dello studio ci ha consentito di scoprire che oltre il 40% delle persone positive erano completamente asintomatiche e abbiamo determinato come la carica virale fosse molto simile tra i soggetti con sintomi e quelli asintomatici. Un aspetto che suggerisce che anche questi ultimi sono potenzialmente in grado di trasmettere l’infezione. Inoltre abbiamo anche sviluppato, in collaborazione con l’Imperial College, un modello matematico che ci ha consentito di stimare che cosa sarebbe successo a Vo’ in assenza di lockdown e di screening di massa, arrivando a prevedere che quasi il 90% della popolazione si sarebbe potuta infettare in assenza di queste misure di contenimento".

I risultati della seconda parte dello studio: gli anticorpi durano almeno nove mesi

La seconda parte dello studio ha invece indagato in modo specifico la risposta immunologica delle persone che erano state esposte a SARS-CoV-2. "Siamo andati a vedere nei sieri dei pazienti se fossero o meno presenti gli anticorpi contro il nuovo coronavirus. Nel maggio del 2020 abbiamo fatto un primo test di massa sulla gran parte della popolazione, oltre 2500 persone, e abbiamo studiato la presenza di diversi anticorpi nel loro sangue", continua Lavezzo.

I ricercatori hanno utilizzato tre diversi tipi di test sierologici in grado di rilevare la presenza di anticorpi sia contro gli antigeni virali della proteina spike (S), sia contro la proteina nucleocapside (N). "In questo modo abbiamo potuto valutare anticorpi che sono in grado di riconoscere diverse porzioni del virus. Al riguardo abbiamo identificato anche una grande variabilità di risultato a seconda del test che è stato impiegato per fare queste analisi e anche saggi che potenzialmente sono in grado di riconoscere la stessa porzione di virus hanno comunque dimostrato di dare dei risultati non sempre concordanti. Questo aspetto va quindi tenuto senz’altro in considerazione quando si fanno dei confronti tra studi diversi", approfondisce il coautore dello studio.

Sui sieri dei soggetti che avevano un titolo anticorpale elevato è stato eseguito anche un ulteriore test finalizzato a individuare la presenza e la quantità di anticorpi neutralizzanti, cioè quelli che sono capaci di legare il virus e di impedire al patogeno di entrare nelle cellule. "Lo si fa in lavoratorio - spiega il professor Lavezzo - mettendo un virus in coltura a contatto con i sieri dei pazienti e poi si va a valutare la capacità del virus di infettare delle colture cellulari. Se nel siero dei pazienti è presente una quantità sufficiente di anticorpi neutralizzanti il virus non sarà in grado di infettare le cellule". 

"Il test che eseguiamo nel laboratorio di biosicurezza di livello 3  - entra nel dettaglio la dottoressa Vittoria Lisi, tecnico sanitario di laboratorio biomedico dell'U.O.C. di Microbiologia e virologia - è un test di micro sieroneutralizzazione: mettiamo a contatto il siero del paziente, ad opportune diluizioni scalari, con un isovolume di virus SARS-CoV-2 ad una concentrazione ben nota. Nell’incubazione, che dura circa un’ora e mezzo, l’eventuale presenza di anticorpi specifici contro il virus permetterà la formazione di immunocomplessi antigene-anticorpo. In seguito, con l'aggiunta successiva di cellule permissive per il virus SARS-CoV-2, andremo a valutare, dopo circa quattro giorni di incubazione, la presenza o meno dell'effetto citopatico su queste cellule permissive. Se il virus si legherà con gli anticorpi specifici non infetterà le cellule".

In una fase successiva i soggetti che avevano avuto un esito di positività o ai tamponi eseguiti tra febbraio e marzo del 2020 o ad almeno uno dei diversi saggi immunologici di maggio, sono stati testati di nuovo nel mese di novembre 2020.

"Abbiamo fatto un nuovo prelievo del sangue e abbiamo ripetuto sia i tre test sierologici sia quelli di neutralizzazione. Questo - approfondisce Enrico Lavezzo - ci ha consentito di osservare la dinamica dei titoli anticorpali a distanza di nove mesi dall’epidemia di Vo’ e abbiamo scoperto che la stragrande maggioranza delle persone che avevano contratto l’infezione da SARS-CoV-2 avevano ancora degli anticorpi rilevabili nel loro siero. A nove mesi di distanza gli anticorpi sono quindi ancora presenti in quasi tutti i soggetti che erano stati contagiati. Questo non si traduce direttamente in protezione perché non abbiamo ancora la possibilità di convertire questi risultati sierologici in valutazioni sulla protezione, non c'è ancora un correlato che ci faccia capire qual è il livello minimo di anticorpi che serve per essere protetto, però è sicuramente un’indicazione e ci sono studi che hanno dimostrato come l’infezione tra le persone che sono positive agli anticorpi contro SARS-CoV-2 sia molto meno probabile rispetto alle persone che sono invece sieronegative e quindi o non hanno mai incontrato il virus o non hanno prodotto una risposta anticorpale contro di esso".

Un’altra parte dello studio è stata rivolta a valutare l’impatto del contact tracing sull'andamento dell'epidemia. "Grazie a tutti i dati che abbiamo raccolto, quindi a partire dai tamponi e poi con i follow-up sierologici, siamo stati in grado di identificare quella che è, con maggiore probabilità, la vera parte della popolazione di Vo’ che è stata positiva. Utilizzando questo set di persone come set di controllo abbiamo confrontato i dati che erano stati raccolti dal Servizio igiene sanità pubblica durante le attività di contact tracing realizzate in tempo reale tra febbraio e marzo del 2020 per vedere quanto sia stato efficace questo approccio. Abbiamo così scoperto che il tracciamento dei contatti ha permesso di identificare solo il 44% di individui infetti, rispetto al totale delle persone che poi noi, a posteriori, abbiamo scoperto essere state positive. Questo risultato ci suggerisce come un approccio basato solo sul contact tracing non riesca a raggiungere un’efficacia sufficientemente elevata per bloccare l’epidemia perché sono troppe le persone che sfuggono. Questo accade per vari motivi: le persone possono non ricordare tutti i contatti o possono non essere consapevoli di avere avuto dei contatti con dei soggetti positivi. Se questo approccio non è stato abbastanza efficace a Vo’, che è una comunità piccola, immaginiamo che su popolazioni più ampie l’efficacia tenderà a essere ancora minore", osserva il professor Lavezzo.

"Questo studio - afferma il professor Andrea Crisanti, direttore del dipartimento di Medicina molecolare dell'università di Padova - è un’estensione del lavoro iniziale condotto a Vo’ e contiene una serie di dati da cui si ricavano, a mio avviso, informazioni estremamente preziose sulla durata della risposta immunitaria nei guariti, sulla trasmissione intra-familiare del virus e sull’efficacia delle misure di controllo e prevenzione".

"In modo particolare - continua Crisanti - abbiamo studiato nel tempo 150 persone che si erano infettate ed erano guarite e le stiamo ancora studiando per monitorare la durata della risposta immune e per valutare l’effetto della vaccinazione sui guariti. I dati che abbiamo pubblicato pochi giorni fa ci dicono che le persone guarite, indipendentemente dalla sintomatologia, sviluppano anticorpi che hanno anche un’attività neutralizzante e durano, a livelli abbastanza elevati, per almeno nove mesi. Ma non solo: in alcuni soggetti abbiamo visto che questi anticorpi, invece di diminuire nel tempo, come accade normalmente dopo l’esposizione a un patogeno, ad un certo punto aumentavano: queste persone avevano una storia di contatti stretti con persone ammalate di Covid e questo suggerisce che ci sia stata una ristimolazione del sistema immunitario che potrebbe avere condotto a un’infezione asintomatica. E’ un aspetto positivo perché significa che questi soggetti sono protetti".


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Il professor Andrea Crisanti sottolinea poi come questo studio possa aiutare anche a riformulare alcune misure recentemente introdotte, a partire dai green pass. "Adesso per i guariti è di sei mesi mentre dovrebbe essere almeno di nove, come avviene per i vaccinati per i quali invece non abbiamo alcuna informazione. Questa è una delle tipiche incoerenze delle misure che vengono approvate quotidianamente", afferma il docente.

Il lavoro condotto a Vo' ha cercato anche di stimare la probabilità che una persona positiva al SARS-CoV-2 trasmetta l’infezione ad un familiare, concludendo che è di circa 1 su 4 (un dato che naturalmente si riferisce alla variante virale che era prevalente quando è stato realizzato lo studio). "Abbiamo studiato nel dettaglio questo aspetto - spiega Andrea Crisanti - e abbiamo fornito dei risultati che sono importanti anche per capire quale può essere la dinamica dell’infezione all’interno di una comunità, come ad esempio una Rsa".

Crisanti si sofferma poi sull'insufficiente efficacia del contact tracing e sul motivo perché dopo una crescita vertiginosa i nuovi casi di contagio in Inghilterra siano adesso in una fase calante, seppur in assenza di lockdown e senza limitazioni alle attività e ai movimenti. "Come viene effettuato in Europa, in America e in altri paesi, il contact tracing ha un impatto quasi nullo: se a Vo’ avessimo tentato di bloccare l’infezione basandoci solo su questo approccio avremmo lasciato ancora molte persone infette e in grado di trasmettere il virus. E’ quindi fondamentale implementare misure di contenimento della trasmissione virale che si ispirino all’esperienza che abbiamo avuto a Vo’: se c’è un soggetto infetto bisogna testare tutta la rete di interazioni di questo persona oppure metterle in quarantena. E’ quello che sta accedendo in Inghilterra in questi giorni. Tutti si domandano con incredulità perché i casi quotidiani stiano diminuendo e il motivo è che vengono eseguiti circa un milione e duecentomila test al giorno e nelle ultime settimane il sistema di tracciamento inglese, che tra l’altro ha anche un sistema di geolocalizzazione indiretta, ha messo in quarantena mezzo milione di persone al giorno".

Nuovi risultati in arrivo (anche con valutazioni sulla risposta anticorpale delle persone vaccinate)

"Lo studio non è concluso - spiega il professor Lavezzo - perché stiamo continuando a monitorare queste persone nel tempo. Siamo tornati a Vo’ a giugno, a 14-15 mesi dall’epidemia, e abbiamo riconvocato le stesse persone che erano venute a novembre, per aggiungere un punto temporale a questa successione di screening che abbiamo eseguito. Abbiamo ripetuto tre test sierologici e il saggio di neutralizzazione e stiamo analizzando i dati proprio in questi giorni: continua il trend di diminuzione degli anticorpi e, grazie ai diversi test che abbiamo usato, siamo in grado anche di analizzare la differenza nella risposta all’infezione naturale e quella alla vaccinazione, perché circa la metà delle persone che abbiamo testato erano state vaccinate. Tra i soggetti vaccinati osserviamo un incremento del titolo anticorpale contro la proteina S che è presente nei vaccini, cosa che ovviamente non accade nelle persone che non hanno ricevuto il vaccino. Per quanto riguarda invece i test sierologici che vanno a vedere un altro antigene del virus, la proteina N che non è un componente del vaccino, non si osserva nessun tipo di aumento, ma un trend in diminuzione".

"Mi piacerebbe infine ringraziare tutti coloro che hanno reso possibile questo studio, a partire da tutto il personale della Microbiologia di Padova che ha lavorato al processamento dei campioni e alle loro analisi, il team del professor Plebani che ha contribuito ai test sierologici con tante analisi. Ringrazio l’Imperial College e in particolare Ilaria Dorigatti con cui stiamo collaborando da ormai oltre un anno con ottimi risultati. E poi tutto il gruppo di giovani laureati che ci stanno dando una mano a fare queste analisi e tutti i giovani medici che hanno contribuito volontariamente a tutte le diverse fasi di questo studio sia dal punto di vista tecnico, sia dal punto di vista dell’organizzazione", conclude Lavezzo.

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