SOCIETÀ

Referendum/2 "Il bicameralismo paritario è superato dai tempi"

È irragionevole e pretestuoso appellarsi (solo) ad argomenti stilistico-letterari per sostenere le ragioni contrarie alla riforma costituzionale. I detrattori sostengono che la riforma è scritta male e che la Costituzione del ’48, conosciuta come la più bella del mondo, rivista e corretta da illustri letterati come Concetto Marchesi, non abbia bisogno di ritocchi. Certo, regole scritte male lascerebbero troppo potere nelle mani di chi le interpreta, nello specifico i giudici della Corte costituzionale. Ma serve ragionare sui contenuti, non solo sulla forma. Cerco di farlo aiutandomi con un paio di casi d’esempio.

Qualcuno sostiene che la nostra Costituzione, nata come una “Costituzione di principi”, diventerebbe una “Costituzione di dettaglio”. E per giunta di cattivo dettaglio. L’affermazione non è del tutto vera. Come tutte le Costituzioni, anche quella italiana ha una parte di dettaglio: quella che si occupa dell’organizzazione dell’apparato statale. I nostri padri costituenti hanno definito le regole sul funzionamento dello Stato in modo da scongiurare il rischio di una seconda affermazione del totalitarismo. La risposta trovata dai nostri Costituenti fu il bicameralismo paritario. Due camere con identici poteri sia nel procedimento legislativo, sia nella concessione e revoca della fiducia al governo.

Il meccanismo è di per sé perfetto, ed è stato sicuramente funzionale al consolidamento della democrazia. Ma oggi, a distanza di quasi 70 anni dall’entrata in vigore della Costituzione, ci troviamo in un contesto del tutto differente, e sarebbe poco saggio non tenere conto dei cambiamenti. A fronte di un Parlamento che non riesce a legiferare abbiamo un governo che di fatto “usurpa” quotidianamente il potere legislativo mediante l’uso, o meglio l’abuso, di decreti legge e decreti legislativi. La situazione è a dir poco anomala. È sufficiente contare quanti decreti legge, decreti legislativi e leggi di conversione di decreti legge sono approvati nel corso di una legislatura e confrontare il dato con le leggi ordinarie approvate dal Parlamento. Per intenderci, solo nel corso del 2016 sono stati approvati 48 decreti legislativi e 4 decreti legge, a fronte di 17 leggi ordinarie e 5 leggi di conversione di decreti legge. In sostanza 52 atti con forza di legge approvati dal governo e solo 17 leggi ordinarie approvate dal Parlamento. Non servono commenti.

Mettere termine all’esperienza del bicameralismo paritario è necessario ed urgente per restituire dignità al nostro Parlamento. La riforma su cui siamo chiamati a votare rende più snello il procedimento legislativo affidandolo nella maggioranza dei casi alla sola Camera dei Deputati. Il Senato non viene però estromesso del tutto. Per le leggi costituzionali, ad esempio, il procedimento resta bicamerale, com’è adesso. Negli altri casi, il Senato potrà dire la sua, se lo vorrà, e in questo caso la Camera dei Deputati è obbligata a pronunciarsi nel termine di sei mesi dalla delibera del Senato. A ben vedere questo meccanismo rende il Senato una vera e propria Camera di riflessione, come volevano che fosse i costituenti. Infatti, a differenza di quanto avviene ora, l’intervento del Senato nel procedimento legislativo avverrebbe con piena assunzione di responsabilità politica, e non con un semplice rimpallo dei disegni di legge da una camera all’altra.

Ciò detto, non è un caso che sulla necessità di una riforma concordino tutti, e da molto tempo. A chi evoca il pericolo che la scarsa chiarezza delle regole sposti il potere nelle mani dei giudici cito un paio di esempi. Il primo riguarda gli Stati Uniti. Tra il 1865 e il 1868 sono stati approvati due emendamenti alla Costituzione che hanno rispettivamente abolito la schiavitù e previsto l’equal protection (uguaglianza) per tutti i cittadini. Nonostante ciò, molti Stati membri hanno continuato a mantenere regole sulla segregazione razziale, ritenendole non incompatibili con il principio di eguaglianza. Neri nelle scuole per neri, e bianchi nelle scuole per bianchi; e via dicendo. Sono stati i giudici della Corte suprema, (quasi 100 anni dopo!), a stabilire che le regole previste nella Costituzione e negli emendamenti non permettessero questa pratica.

Bell’esempio, si dirà, ma in che modo ha a che fare con la nostra riforma? Beh, serve a capire che i giudici servono a garantire che quanto sta scritto nelle Costituzioni non rimanga lettera morta, ma diventi diritto vivente. E ciò vale tanto per la parte che contiene principi e diritti fondamentali (la prima parte nel nostro caso), quanto per quella in cui si trova la disciplina dei pubblici poteri. Un secondo esempio, più nostrano questa volta, può essere di chiarimento.

L’articolo 77 della Costituzione è molto chiaro nello stabilire che il governo non può adottare decreti legge se non ricorrono condizioni straordinarie di necessità ed urgenza. Che poi si tratti di una eccezione è ribadito imponendo un’efficacia limitata a 60 giorni del decreto stesso, se non convertito in legge dal Parlamento. Nonostante ciò, nell’epoca della cosiddetta prima Repubblica, era prassi consolidata che il governo reiterasse all’infinito lo stesso decreto legge, riapprovandolo ad ogni scadere del termine di 60 giorni. Questo accadeva un po’ per mala fede, certo, ma anche perché il Parlamento era incapace di approvare nei 60 giorni la legge di conversione del decreto legge. Ma prolungare la durata di un decreto legge oltre il termine massimo stabilito dalla Costituzione equivale a sottrarre il potere legislativo al Parlamento, in violazione del basilare principio della separazione dei poteri. Per questa ragione nel 1996 la Corte costituzionale ha dichiarato la pratica della reiterazione dei decreti legge contraria alla Costituzione.

Tutto ciò prova che i giudici sono necessari anche per garantire un equilibrato assetto dei poteri. Ma non sono sufficienti. La sentenza del 1996 vieta la pratica della reiterazione dei decreti legge, ma nulla può fare contro un uso eccessivo di tale strumento. Per questa ragione è necessaria una riforma che ridia centralità al Parlamento. Di fronte ad un Parlamento che è in grado di approvare le leggi in tempi certi, non serve che il governo invada la sfera del legislatore con i decreti.

Insomma, i meccanismi che fanno funzionare le democrazie moderne sono complessi. Una parte di essi è di tipo rappresentativo (organi elettivi), ed una parte, più piccola (ma nel nostro caso siamo quasi 50 milioni di elettori!), è di tipo diretto (referendum, diritto di petizione).Ma per garantire un corretto funzionamento servono anche alcuni organi di garanzia, fra cui la Corte costituzionale, che con le proprie decisioni contribuisce a interpretare e tutelare la stessa Costituzione.

Allora, ammesso che il diritto in quanto linguaggio deve necessariamente essere interpretato, e concesso che regole scritte male rendono più difficile l’interpretazione, cosa fare di questa riforma? Nell’ipotesi che il problema sia solo stilistico-letterario potremmo aspettare che si faccia avanti una classe politica all’altezza di quella che ha approvato la Costituzione originaria. Ma non possiamo permetterci di perdere questa occasione. La responsabilità di respingerla graverebbe soprattutto sulle generazioni future, perché dubito che si rimetterà mano tanto presto al riassetto delle istituzioni.

Un sì espresso nel referendum per la riforma elettorale non getta alle ortiche la Costituzione più bella del mondo. Ricordo ancora lo stupore con cui appresi dell’invidia di un collega svizzero per l'articolo 32 della nostra Carta, quello che “tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”. Ma l’articolo 32 si trova nella prima parte della Costituzione, la parte che la riforma non tocca.

Sergio Gerotto

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