SOCIETÀ

Berlino 1936: "un ebreo non può vincere le Olimpiadi"

Lo sport, si sa, non è immune dalla discriminazione e dall’odio per il diverso – un fatto che ha assunto spesso le forme ipocrite dell’accettazione di comodo restando per troppo tempo oscuro al grande pubblico. Le storie di alcuni atleti del passato possono ancora svelarci tutta l’ambiguità e la complessità del pregiudizio, mostrando anche come il concetto di “diverso” sia in realtà difficile da definire.

L’adozione delle leggi razziali nella Germania degli anni Trenta, ad esempio, portò all’espulsione di molti atleti ebrei. Ma quando – per le Olimpiadi del 1936 – il Terzo Reich dovette dimostrare al Comitato olimpico internazionale (Cio) che gli ebrei non venivano esclusi a priori dalle squadre nazionali tedesche, alcuni di loro vennero prontamente reintegrati, anche per scongiurare il boicottaggio della squadra americana.

Campionessa tedesca di salto in alto, nata nel 1914 da genitori ebrei, Gretel Bergmann fu prima allontanata dal suo club sportivo (si rifugiò nel Regno Unito dove vinse il campionato nazionale) poi convinta dalle autorità tedesche – anche con minacce di ripercussioni sulla sua famiglia – a partecipare alla Olimpiadi. Tornata in Germania, le venne però proibito di allenarsi assieme al resto della squadra, nonostante avesse eguagliato il record tedesco di salto in alto. Ma a un mese all’inizio delle gare, dopo aver appreso che la squadra americana si era ormai messa in viaggio verso l’Europa, venne esclusa dalla competizione e rimpiazzata da una atleta “di pura razza ariana”, Dora Ratjen (uno dei primi casi di ermafrodita dello sport contemporaneo). “Se anche avessi potuto partecipare alle Olimpiadi, sarei stata comunque una perdente”, dichiarò poi la Bergmann (che negli Usa prese il nome di Margaret Lambert) in una delle rare interviste rilasciate. “E se avessi vinto sarebbe stato un tale insulto per l’ideologia tedesca… tanto da mettere in pericolo la mia stessa vita, ne sono certa. Come può un ebreo essere abbastanza bravo da vincere le Olimpiadi?”. Un epilogo diverso ebbe invece la storia di Helene Mayer, di padre ebreo e madre cristiana, schermitrice dotata di tecnica e movenze sopraffine. Vincitrice dei campionati tedeschi di fioretto a soli tredici anni e medaglia d'oro olimpica ad Amsterdam nel 1928, due volte campionessa del mondo, per le sue origini venne espulsa dal club sportivo dove militava. Non le venne però impedito di prendere parte ai Giochi Olimpici di Berlino del 1936, unica atleta ebrea a gareggiare sotto le insegne del Reich. Persa la medaglia d’oro all’ultima stoccata, contro la giovane ungherese Ilona Schacherer-Elek, la Mayer si dovette accontentare dell’argento. Anche quando lascia il Paese, consapevole di “appartenere a quella parte dell’umanità per cui non c’è più spazio”, continua a rivendicare il diritto di sentirsi tedesca e a dichiarare il suo amore per la Germania. Di lei, bella e fiera, restano le immagini del podio berlinese mentre allunga il braccio nel saluto nazista.

Helene Mayer, Olimpiadi di Berlino 1936

La sfida all’omologazione nazista venne invece da Albert Richter, un giovane ciclista di Colonia che tanta passione e un allenatore ebreo, Ernst Berliner, avevano portato all’inizio degli anni Trenta ai vertici delle classifiche internazionali. La sua fama - lo chiamavano il tedesco a otto cilindri - crebbe parallelamente al potere del Führer, ma presto capì che in Germania non avrebbe avuto molte possibilità di gareggiare (non partecipò mai un’Olimpiade) e si trasferì in Francia, dove la Gestapo gli propose di diventare una spia al servizio del Reich. Non solo rifiutò, ma nel 1934 fu l’unico a non osservare il saluto nazista durante le premiazioni di una gara, sfilando con un’uniforme che al posto della croce uncinata aveva l’aquila imperiale. Largamente apprezzata in Germania e all’estero, la figura di Richter indispettiva il regime: lui che incarnava la forza del popolo tedesco, ma era così lontano dagli ideali del nazionalsocialismo. Dopo l’entrata in guerra della Germania, non rispose alla chiamata alle armi, perché aveva girato il mondo e sosteneva di “non voler sparare sugli amici”. Quando, su consiglio del suo allenatore, decise di fuggire in Svizzera, tagliò i copertoni della bicicletta per inserirvi i risparmi di alcuni amici ebrei che tentava di salvare oltre confine. Alla frontiera lo attendeva però la Gestapo, che lo portò in prigione, lo uccise e ne bruciò il corpo. Qualche giorno dopo sui giornali del partito nazista apparve la notizia: “Intercettato un contrabbandiere che nascondeva nella bicicletta 13.000 marchi di provenienza furtiva. Lui, per la vergogna, si toglie la vita impiccandosi”. Il suo allenatore, tornato in Germania dopo la guerra, tentò in tutti i modi di far riaprire il caso e ristabilire la verità, ma senza successo. Richter resterà escluso anche da tutte le liste di atleti della federazione ciclistica tedesca fino ai primi anni 2000.

Non sarebbe potuta andare diversamente, in quella Germania che offriva al mondo la vetrina olimpica del 1936, ma poche decine di chilometri da Berlino costruiva il campo di Sachsenhausen-Oranienburg, vero centro amministrativo del futuro universo concentrazionario tedesco e primo campo d’addestramento per gli aguzzini delle Ss. Gioia Baggio

Gretel Bergmann e Albert Richter

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