SOCIETÀ

Europa, una ricetta per la crescita: più immigrati

Il risultato delle ultime elezioni europee lascia pochi dubbi quanto alla grande diffusione tra gli elettori dell’Unione di sentimenti profondamente anti-immigrazione. Allo stesso tempo negli Stati Uniti, il disaccordo al Congresso su come gestire i circa 11 milioni di stranieri che vivono qui da anni senza possedere i giusti visti o permessi di soggiorno sta bloccando indefinitamente un’urgente riforma delle antiquate norme che regolano l’immigrazione in questo Paese. Da entrambi i lati dell’oceano, il dibattito sul tema assume toni simili ed è in parte il risultato di ansie culturali e in parte deriva da preoccupazioni esplicitamente economiche, dalla convinzione che i neo-arrivati rubino il lavoro ai cittadini offrendosi a prezzi più bassi e quindi facciano calare sia i salari sia l’occupazione. Eppure, l’evidenza empirica a disposizione confuta questa credenza, dimostrando che le economie dei paesi avanzati beneficiano grandemente dall’influsso di lavoratori stranieri, sia di quelli altamente qualificati sia di quelli meno istruiti.  

 “Negli Stati Uniti, l’immigrazione degli ultimi 20 anni non ha danneggiato i lavoratori – dice Giovanni Peri, professore, italiano, presso l’università della California a Davis, che ha studiato il nesso tra immigrazione e economia sia in America che in Europa - Anzi ha dato nuovo impeto alle imprese, consentendo loro di trovare sempre nuova manodopera per continuare a produrre localmente, e, grazie agli immigrati più qualificati, ha fatto aumentare la produttività”. 

 Peri è co-autore, assieme a Kevin Shih, anch’egli di UC Davis, e Chad Sparber, di Colgate University nello stato di New York, di un recente paper sul tema. I tre ricercatori hanno studiato il legame tra afflusso di scienziati e ingegneri stranieri (i professionisti dei settori cosidetti STEM, da Science, Technology, Engineering and Mathematics) in 219 città americane tra il 1990 e il 2010 e l’andamento dei salari in queste stesse città. La conclusione raggiunta è che, per ogni aumento dell’1% nella quota di lavoratori STEM immigrati, gli stipendi degli americani con una laurea sono cresciuti dell’8% e quelli degli americani senza una laurea del 3-4%. “Alla base della nostra analisi è l’idea che la crescita della produttività nelle economie avanzate dipende in gran parte dal progresso tecnico e scientifico – spiega Peri – e l’input principale per tale progresso sono i cervelli che lavorano nei settori innovativi”.

Se gli immigrati altamente qualificati sono più facilmente accettati – tant’è che sia repubblicani sia democratici a Washington concordano sul fatto che ce ne vorrebbero di più negli Stati Uniti, non di meno – i lavoratori poco istruiti, e spesso privi di documenti, generano reazioni ben diverse. Invece, anche loro contribuiscono in maniera decisiva alla crescita dei paesi che li ospitano. “Questa è manodopera che fa lavori manuali da cui gli americani si stanno allontanando – continua Peri – Anziché soppiantare i cittadini, gli immigrati permettono alle imprese di mantenere in loco le funzioni più basilari e simultaneamente di aumentare le posizioni di maggiore responsabilità, solitamente ricoperte dagli americani”.  Gli esempi più eclatanti di questo fenomeno sono l’agricoltura e l’edilizia, enormi settori dell’economia dove quasi tutti i posti di lavoro poco qualificati vanno agli immigrati, mentre gli americani rivestono ruoli manageriali, di pubbliche relazioni, di marketing.

Questo non toglie che, negli ultimi vent’anni, il mercato del lavoro non è stato favorevole agli americani senza una laurea. Ma non è colpa dell’immigrazione. I veri responsabili sono la globalizzazione, l’offshoring verso paesi come la Cina e il Bangladesh, la meccanizzazione e computerizzazione dell’industria. “Il problema è che molti confondono le due cose, vedono che il lavoratore meno qualificato non ha fatto particolarmente bene negli ultimi anni, vedono che ci sono questi immigrati senza documenti e arrivano alla conclusione che uno causa l’altro”, dice Peri.

Le stesse considerazioni valgono anche per l’Europa, in particolare i paesi del Nord che hanno mercati del lavoro generalmente aperti e flessibili. Peri, ad esempio, ha studiato l’impatto dell’immigrazione in Danimarca e ha trovato effetti simili a quelli visti negli Stati Uniti. La situazione è più complessa nei paesi mediterranei, così come in Francia e Germania, ovvero laddove i mercati del lavoro sono più chiusi, strutturati e protettivi dei cittadini. Questo rende più difficile l’integrazione degli stranieri, cui in sostanza non è data la possibilità di contribuire come potrebbero. Non a caso, se negli Stati Uniti il tasso di disoccupazione tra gli immigrati è spesso più basso di quello tra i cittadini, in gran parte d’Europa la situazione è capovolta. 

La difficile integrazione degli stranieri nelle economie nazionali ha un secondo effetto avverso, che contribuisce a fomentare la percezione negativa degli immigrati. Li rende immediatamente più dipendenti dai servizi governativi (questo problema è meno sentito negli Stati Uniti perché la rete di sicurezza sociale è assai più scarna che in Europa). Un vero spreco se si considera che gli immigrati sono, per la maggior parte, giovani, hanno davanti a sé una vita lavorativa di trent’anni e, se impiegati nella maniera giusta, rappresentano una fonte di entrate per il fisco, non un costo.  

“Le politiche sull’immigrazione in Europa contribuiscono direttamente a questo problema  – dice Peri - Una su tutte quella che proibisce ai rifugiati politici e richiedenti asilo di lavorare fin tanto che il loro caso non è deciso”. Manca inoltre una prospettiva di lungo periodo, l’abilità di pianificare non solo per i mesi a venire, ma per i prossimi decenni. Ci vorrebbe, ad esempio, una politica europea mirata a gestire al meglio l’instabilità politica ed economica in Medio Oriente e Africa, regioni che continueranno a produrre un gran numero di persone desiderose di emigrare verso nord. Una leadership lungimirante proverebbe ad attrarre proattivamente i più qualificati tra di essi, anziché rispondere solo e sempre in maniera reattiva all’emergenza degli sbarchi a Lampedusa. Purtroppo, dato l’esito della più recente tornata elettorale europea, è improbabile che emerga presto una leadership lungimirante in fatto di immigrazione. 

Valentina Pasquali

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