SOCIETÀ

Il dramma della "Bella Addormentata"

Con la recente scomparsa del cardinal Martini - caratterizzata dalla sua richiesta, in punto di morte, di rinunciare a qualsiasi forma di accanimento terapeutico - e la presentazione del film Bella addormentata di Marco Bellocchio al Festival del cinema di Venezia, è tornato di attualità quello che per molto tempo è stato definito il “caso Englaro”. A tre anni dalla morte di Eluana non si è ancora spenta l’eco del dibattito sul “diritto a morire”: è stato giusto interrompere l’alimentazione forzata e condurla così alla morte, o sarebbe stato giusto invece tenerla artificialmente in vita perché Eluana era ancora clinicamente viva?

Stati vegetativi, stati minimi di coscienza, coma, sono tutti gravi “disordini delle coscienza” umana che spesso scatenano una serie di discussioni e aspre polemiche. Ma lontano dai riflettori e dalle luci della ribalta la ricerca medica e psicologica fa passi da gigante. Uno studio condotto da Lorella Lotto, Andrea Manfrinati, Davide Rigoni, Rino Rumiati e Giuseppe Sartori del dipartimento di Psicologia dell’Università di Padova, in collaborazione con Niels Birbaumer dell’istituto di Psicologia medica dell’Università di Tubinga, ha cercato di fare chiarezza sulla percezione che le persone hanno di questi disordini della coscienza, e ha cercato di rispondere a quegli interrogativi che il caso Englaro aveva sollevato.

Oggetto dell’indagine era la percezione che le persone hanno dei pazienti che si trovano in uno stato vegetativo permanente o che hanno subito gravi traumi cerebrali che riducono la loro esperienza cosciente. Queste patologie sono state confrontate con altre nelle quali la coscienza è preservata ma alcune funzioni legate al corpo sono compromesse, come ad esempio nella sindrome Locked-in, in cui il paziente è completamente paralizzato e può comunicare solamente attraverso il movimento degli occhi. I partecipanti allo studio dovevano esprimere, su una scala da 0 a10, quanto secondo loro quei pazienti fossero “vivi” o “morti”, e quanto appropriato fosse soddisfare le richieste del paziente di non rimanere in tali condizioni. Lo scopo principale dello studio era quello di sottoporre a una verifica empirica l’ipotesi che le posizioni sulle questioni di fine vita siano principalmente guidate dai principi morali. Nello specifico, si ipotizzava che patologie cliniche in cui l’esperienza cosciente è ridotta o completamente assente (come nello stato vegetativo permanente) venissero considerate tanto gravi da considerare la persona come “più morta” rispetto ad altre affette da patologie meno gravi.

I risultati hanno dimostrato che chi abbraccia un principio morale di tipo laico, che lascia all’individuo la “libera scelta” di decidere riguardo la propria vita, più spesso considera appropriata la richiesta di un paziente che chieda, o aveva chiesto quando era ancora cosciente, l’interruzione dell’idratazione e dell’alimentazione forzata. Al contrario, chi abbraccia un principio morale che attribuisce alla vita una dimensione di “sacralità”, non ritiene appropriata la richiesta del paziente.

Se questi risultati erano prevedibili, in quanto rispecchiano le posizioni conflittuali che hanno caratterizzato il caso Englaro, il valore di questo studio riguarda il modo in cui le persone percepiscono lo stato di vita/morte di un paziente affetto da gravi patologie cerebrali. Infatti, tanto più le persone credono nel principio della “libera scelta”, tanto più percepiscono come morti i pazienti in cui la coscienza è assente o gravemente compromessa. La percezione dello stato di vita/morte dei pazienti non cambia invece in funzione della patologia per coloro che ritengono che la vita sia sacra.

L’indagine getta quindi nuova luce non solo sul ruolo discriminante che la coscienza sembra avere nelle decisioni di fine vita, ma anche sullo stesso concetto di vita e sul fatto che possiamo riferirci a essa in modi diversi. Potremmo riferirci a essa in senso biologico e sostenere che viviamo perché “siamo vivi”. Ma potremmo adottare anche una concezione biografica di vita dove ciò che si considera rilevante non è il fatto di essere vivi, ma di “avere una vita” e di essere coscienti di questa vita. Di conseguenza, la perdita prolungata e/o irreversibile di coscienza è vista come uno stato simile alla morte della persona. Questo ci aiuta a capire che il dibattito sulle questioni di fine vita è così variegato e sfaccettato perché così sono anche le posizioni e i concetti in campo. La psicologia e le scienze cognitive ci permettono di gettare un ponte tra scienza e società evidenziando come i concetti di vita, morte, coscienza, consapevolezza, non abbiano solamente un significato oggettivo, ma anche una dimensione soggettiva, che si fonda sui precetti morali, religiosi, e politici degli individui che è di fondamentale importanza e di cui bisogna tener conto nel momento in cui si affrontano temi tanto complessi quanto delicati.

 

Andrea Manfrinati

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