CULTURA

Nature, condivisione ma senza Open Access. Un passo avanti e tre indietro?

A seguito dell’annuncio fatto a inizio dicembre da Nature – la storica e prestigiosa rivista scientifica statunitense, pubblicata la prima volta il 4 novembre 1869 –  sulle nuove funzionalità di condivisione dei contenuti, la redazione di Nature Publishing Group (Npg) è stata sommersa da mail e commenti di ogni genere. Non è un’esagerazione affermare che il feedback sia stato esplosivo. Se, da una parte, nel corso delle ultime settimane l’editore è stato bersagliato da valanghe di critiche, d’altro canto Steven Inchcoombe, l'amministratore delegato di Npg & Palgrave Macmillan, il gruppo editoriale della rivista, e la responsabile per le comunicazioni Grace Baynes affermano che l’iniziativa è stata accolta favorevolmente da molti lettori, sebbene la notizia abbia generato una certa confusione.

Scientific American si chiede nel suo blog, con un intervento dal titolo Is Nature’s “free to view” program a step back for open access? se la decisione della rivista, che apre in lettura i suoi archivi agli abbonati e a un centinaio di testate e blog, non sia di fatto un passo indietro rispetto alla generalizzazione dell’Open access ormai in corso. Se da una parte alcune testate on line accolgono il programma "free to view" con affermazioni come “Tutte le ricerche pubblicate sulla storica rivista scientifica saranno leggibili on line, gratis” oppure “Nature apre i suoi archivi”, uno degli aspetti più discussi concerne proprio l’Open access, perché – come afferma la stessa rivista – la condivisione di contenuti non significa Open access. La condivisione di un articolo come è stata decisa da Nature è cosa assai diversa dal renderlo disponibile in accesso aperto.

A spiegare di che cosa si tratti e quali siano le intenzioni di Npg è Timo Hannay, Managing Director di Digital Science – la ripartizione di Macmillan che ha sviluppato il software ReadCube alla base del servizio – dichiarando anzitutto che il gruppo non ha alcuna intenzione di proporre alternative all'Oa, che adotta e sempre più adotterà per molte delle sue pubblicazioni. Nel suo post sul blog di Digital Science, Nature.com content sharing: action and reaction, riportato anche nel comunicato stampa di Nature, Hannay sottolinea come sin dal 2002 Npg stia supportando fattivamente l’Open access, l’Open data e l’Open research in varie forme e modi. 64 dei periodici del gruppo, sui 100 totali, sono pubblicati con opzione Oa; nel 2013 si è arrivati a un 38% di articoli di ricerca pubblicati in Open access e la previsione è di toccare il 50% nel 2015. Nature Communications nel 2015 sarà completamente ad accesso aperto, preceduta dal lancio nel corso del 2014 di Scientific data, un datajournal a supporto dell’open data entro il framework dell’open science.

Oltre 7.000 papers nel corso del 2014 sono stati pubblicati su Scientific reports in accesso aperto euna decina di nuove riviste si sono convertite a modelli Oa con uso di licenze Creative commons, consentendo il riuso dei contenuti, compreso il "data mining" di testo per usi non commerciali. Inoltre, dal 2005 viene regolarmente autorizzato il self-archiving e dal 2008 Npg partecipa a PubMed Central appoggiando le policy per l'accesso aperto dei National Institutes of Health. Quindi, argomenta Timo Hannay, nessun passo indietro rispetto all’Open access: la modalità scelta per Nature costituisce un’offerta sperimentale aggiuntiva, complementare  e non alternativa all’Oa. Non si tratta di una sua sostituzione, si sta provando qualcosa di nuovo per aiutare i ricercatori a collaborare e fornire al pubblico degli abbonati Npg un modo diverso per leggere contenuti scientifici che prima non erano disponibili. Un tentativo, secondo l’Economist (tra i 100 privilegiati) di portare la scienza entro la società grazie ai nuovi mezzi offerti dal mercato digitale.

"Sappiamo che i ricercatori stanno già condividendo contenuti, spesso in angoli remoti di internet e con tecniche scomode e complesse, abbiamo la tecnologia per fornire un’alternativa comoda e legittima che permetta ai ricercatori di accedere alle informazioni che servono a loro e al più ampio pubblico interessato alla conoscenza scientifica" dice il direttore di Digital science, rispondendo alle critiche di autorevolissimi blogger come Peter Murray-RustJohn Tennant, Michael Eisen, Ross Mounce e John Wilbanks che parlano di mezzo passo avanti e tre indietro, di un’apertura con asterisco.

In realtà  – come specificato nelle linee guida che descrivono il nuovo servizio – Nature non rende i suoi articoli “free to view” a tutti, ma solo a utenti autorizzati come abbonati o amici di abbonati, i quali potranno soltanto “leggere a video” e annotare ma non scaricare né stampare l’articolo e tantomeno aggiungerlo come “favorito” entro un sistema di gestione delle citazioni diverso da ReadCube. Non è possibile fare taglia e incolla, e comunque il file non è leggibile dalla macchina (per il text mining), ma nemmeno dai programmi di supporto per utenti non vedenti. ReadCube è disponibile per Windows, Macintosh e iPhone - ma non per Gnu/Linux, e quindi questo è un passo indietro anche in termini di piattaforme. Questo cambiamento avviene in un momento in cui le agenzie di finanziamento di tutto il mondo stanno creando politiche per l’accesso aperto di forza variabile – la Fondazione Gates ha recentemente attuato una politica molto progressista che per inciso non consente la pubblicazione in Nature.

Nell’era di hash tag di Twitter come #icanhazpdf  – modalità innovativa per ottenere pdf di articoli da colleghi – di stretta derivazione dei vecchi sistemi listservs, o dei classici scambi via e-mail, una modalità condivisa in sola lettura appare alle giovani generazioni di ricercatori e agli studenti un modello granitico, in certi casi anche in violazione delle licenze istituzionali sottoscritte per l’accesso in abbonamento.

Su Twitter il nuovo sistema è stato molto criticato, etichettato come “beggar access”, letteralmente “accesso da mendicanti” ritenendo che più che un tentativo di fornire migliore accesso ai contenti di fatto si tratti solo di una trovata pubblicitaria, anche perché richiede l’utilizzo del software proprietario ReadCube, una estensione (o app per i servizi mobili) di Adobe Air dedicata alla organizzazione delle librerie pdf che consente di aprire in lettura articoli in quel formato. Il funzionamento è simile all’iTunes di Apple ed è spiegato in alcuni video presenti sul blog di Nature.

Di fatto andrà verificato come questo servizio impatterà con il servizio bibliotecario noto come Document delivery.  Il modello ReadCube di Macmillan –  la Microsoft del mondo dell'editoria accademica – è comunque interessante proprio per l’impatto che una ricerca può avere nella sfera del sociale: un articolo scaricato da un utente di un sito istituzionale, abbonato e aggiunto entro ReadCube – che funge da sistema Reference manager – e citato entro un forum o rete sociale, lo rende accessibile a chiunque, come ha dimostrato con diverse prove un utente su Reddit, aumentandone l’impatto in termini di citazione tramite le nuove metriche alternative. E non per niente Macmillan offre il servizio innovativo Altmetric che traccia le citazioni di un paper entro i social network tramite un semplice bookmarklet.

Antonella De Robbio

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