SOCIETÀ

Olocausto, le responsabilità italiane

L’Italia non fu solo partigiana ma anche complice, per quanto si tenda a dimenticarlo, nel genocidio degli ebrei. “Era la notte tra il cinque e il sei Dicembre 1943. Mia madre abitava allora a Venezia con tre sorelle e il padre, al terzo piano di una vecchia casa. Quando le camicie nere bussarono la signora che abitava al primo piano disse loro, mentendo, che se n’erano già andati”. A raccontarlo, oggi, è la figlia Miryam Vertes. “Salirono lo stesso a cercarli. I miei ascoltavano con angoscia il rumore degli stivali e lo sbattere dei fucili sulle porte”. Quella notte le camicie nere non li trovarono. Il mattino dopo di buon’ora le quattro sorelle partirono per Fiesso d’Artico, mentre il padre volle rimanere a Venezia. “A guerra finita mia madre tornò a Venezia per cercare il padre. Chiese a tutti, dagli uffici comunali al rabbino Ottolenghi. E fu proprio la moglie del rabbino a dirle di non cercare più”. Augusto Levi Minzi era morto nel campo di concentramento di Auschwitz. 

L’ordine di arresto degli ebrei e del sequestro dei loro beni porta la data del 30 novembre 1943 e la firma del ministro degli Interni Buffarini Guidi: “Tutti gli ebrei… A qualunque nazionalità appartengano e comunque residenti nel territorio nazionale debbono essere inviati in appositi campi di concentramento”. Con quest’ordinanza, le autorità italiane assumevano autonomamente e ufficialmente l’iniziativa della persecuzione e dell’internamento degli ebrei.   

“Spesso – sottolinea Simon Levis Sullam, docente del dipartimento di studi umanistici dell’università Ca' Foscari di Venezia e relatore in un recente convegno a Padova su La persecuzione degli ebrei (1943-45): un genocidio – si tende a deresponsabilizzare l’Italia, dimenticando che in realtà gli italiani furono attori e complici del genocidio degli ebrei”.   

Così, mentre a Padova Meneghetti, Marchesi e Trentin costituivano il Comitato di liberazione nazionale (Cln) regionale veneto e il primo dicembre 1943 il rettore Marchesi invitava anche gli studenti alla resistenza armata contro il nazifascismo, il tre dicembre veniva inviato nel campo di concentramento di Vo’ il primo gruppo di ebrei. Il campo era stato allestito a Villa Contarini-Venier per tutti gli ebrei della provincia di Padova (arriverà a ospitarne 47), prima del loro trasferimento alla risiera di San Sabba a Trieste. E di qui ad Auschwitz. 

La camera delle esecuzioni all'interno della risiera di San Sabba a Trieste. Foto: Carlo Calore

Pochi giorni dopo, il 5 dicembre 1943, a Venezia il questore ordinava ai commissariati di Pubblica sicurezza, al comando dei Carabinieri e al 49° Legione della Milizia volontaria di sicurezza nazionale “l’immediato fermo di elementi appartenenti a razza ebraica”. E precisava che sarebbero stati “tradotti alle locali carceri di S. Maria Maggiore se di sesso maschile, alla Casa Penale della Giudecca se di sesso femminile, al centro minorenni se trattasi di minori”. Il giorno dopo, stando agli studi di Sullam, si comunicò al ministero l’arresto di 163 ebrei a Venezia e provincia, trasferiti la settimana successiva nella Casa di ricovero israelitica nel ghetto nuovo che fungeva da campo di transito. L’arresto avvenne di notte, gli ebrei trasportati lungo canali secondari. I giorni seguenti gli agenti di polizia misero sotto sequestro e sigillarono le abitazioni. Il 31 dicembre furono 93 gli ebrei ad essere deportati al campo di concentramento di Fossoli di Carpi, “scortati da militari dell’Arma”, “su due vetture di terza classe messe a disposizione delle Ferrovie”.   

E come a Padova e Venezia, anche in altre parti d’Italia. A Grosseto il prefetto Ercolani alla fine di novembre del 1943 faceva entrare in funzione il campo di concentramento di Roccatederighi. La stessa cosa avveniva a Pisa. Un atteggiamento indicato come “vivo desiderio di leale collaborazione”. 

In questo clima i “traditori” diventavano figure centrali e anche chi non era schierato finiva per aderire al nuovo sistema di norme, spesso con il miraggio di un guadagno. La carta di Verona stabiliva che gli ebrei appartenevano a “nazionalità nemica”. Al punto che i concittadini, i vicini diventavano stranieri: il cameriere denunciava il padrone, l’allievo il maestro, l’impiegato il collega. 

“Il genocidio degli ebrei – sottolinea Sullam – entra nella vita delle persone. Ciò che avviene è uno “spezzettamento” di atti umani (e di responsabilità) che sono ben lontani dall’esito finale, e cioè lo sterminio nei campi di concentramento, ma senza i quali l’obiettivo non sarebbe stato raggiunto”.  In questo modo tutti partecipavano all’atto finale: l’impiegato comunale che forniva i nomi delle vittime, la dattilografa che compilava le liste, la polizia, l’autista che guidava il camion con cui gli ebrei venivano trasferiti nei campi di concentramento. Anche le ferrovie.

“… con il cuore afflitto lascio la mia terra nativa – scriveva Wanda Abenaim il 7 dicembre 1943 – Parto per terre lontane da sola però mi faccio coraggio. Porga un bacio alla mia cara mamma e fratello e che preghino per me e che non li dimenticherò mai. Farò di tutto per dare mie notizie. Sto bene...”. È il biglietto che gettò a Verona dal treno che la stava deportando ad Auschwitz. Da cui non tornò mai.

Monica Panetto

L'interno di Villa Contarini-Venier a Vo'. Foto: Carlo Calore

 

 

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