SOCIETÀ

Open-space: un'idea diabolica

Squillano i telefoni, trilla l’allarme della posta elettronica in arrivo, unghie troppo lunghe pestano sulla tastiera, un capannello di colleghi discutono di grafici poco riusciti, al tavolo vicino si tiene un’intervista telefonica. Un sovrapporsi di suoni che si ripetono in loop otto ore al giorno, cinque giorni alla settimana. Mentre si lavora. È la vita dell’impiegato in un open-space.

Il rumore sembra essere la fonte principale di stress per chi lavora in uno spazio condiviso con molti. Ma ciò che in realtà  infastidisce maggiormente è la mancanza di sound privacy, la possibilità di parlare liberamente, senza avere uditori non graditi. Perché qualsiasi  telefonata verrà ascoltata involontariamente da tutti i presenti, qualsiasi espressione sarà sottoposta al giudizio altrui, qualsiasi conversazione privata non sarà mai veramente tale. È ciò che afferma lo studio di due ricercatori dell’Università di Sydney, Jungsoo Kim e Richard de Dear, pubblicata dal Journal of environmental psychology. A soffrire di mancanza di sound privacy è quasi il 50% di chi lavora in un open-space; ancor peggio va a chi, costretto in un ufficio dello stesso tipo, si ritrova solo formalmente isolato in un cubicolo: sentire un suono e non poter nemmeno capire quale ne sia la fonte provoca stress a circa il 60% degli intervistati. La ricerca ha elaborato le risposte di 42.700 americani che lavorano in uffici caratterizzati da una diversa distribuzione degli spazi, ai quali è stato chiesto di indicare le maggiori cause di frustrazione nel proprio luogo di lavoro. L’obiettivo era quello di capire quali fossero le soluzioni “abitative” che conciliassero al meglio benessere psicologico e produttività. E senza dubbio la soluzione non sta nell’open-space: sulla scorta dei risultati della ricerca, che il quotidiano inglese The Guardian commenta con il titolo Open-plan offices were devised by Satan in the deepest caverns of hell (ndr gli uffici open-space sono stati ideati da Satana nelle caverne più profonde dell’inferno), chi lavora in un open-space è molto infastidito anche da altri fattori: la mancanza di privacy visiva, i disaccordi sulla temperatura ambientale, la qualità dell’aria e l’esiguità dello spazio disponibile. Anche studi precedenti, citati abbondantemente nella ricerca di Kim e De Dear, arrivavano a risultati simili, rincarando anzi la dose: lo Scandinavian journal of work environment and health evidenziava infatti che negli open-space si accumula il 62% di giorni in più di malattia (nello studio viene usato il termine generale sickness) rispetto agli occupanti di uffici singoli; uno studio della Virgina State University rivelava che lo stress ha anche pesanti ricadute sulla produttività.

Nonostante però la vasta letteratura sugli svantaggi della struttura open-space, questo tipo di ufficio è ampiamente adottato nelle aziende. I motivi sono soprattutto economici: è possibile mettere un numero molto alto di persone a lavorare fianco a fianco, facendo così economia di spazio e anche di mezzi, eliminando in questo modo ogni necessità di costruire partizioni e arredare spazi privati, ma acquistando invece la massima flessibilità organizzativa. L’interpretazione più diffusa vuole che fra i benefici sia incluso anche un significativo aumento della comunicazione fra colleghi, della collaborazione e del confronto. In realtà Kim e De Dear dimostrano che lavorando in un ufficio privato si ha molta più libertà e facilità di comunicazione di chi lavora a stretto contatto con i colleghi. La loro conclusione è che, data la comprovata relazione fra soddisfazione del lavoratore e produttività, manchino del tutto le basi per affermare che l’open-space sia la scelta economicamente più vantaggiosa; i supposti benefici non riuscirebbero a compensare inoltre i costi umani in termini psicologici. A riprova di ciò, la 2013 US Workplace Survey ha calcolato nel 6% il calo della produttività dei lavoratori in uffici open-space negli Stati Uniti.

Qual è la soluzione, dunque? Considerata l’esigenza di risparmio delle aziende, basterebbe forse dotare gli uffici ad alta densità di uno spazio “terziario”: una zona contigua di decompressione, abbastanza silenziosa  da permettere di concentrarsi, di fare le telefonate più importanti o di spostare il proprio portatile per lavorare in wifi. In alternativa ci si doterà di buone cuffie per ascoltare musica a un volume sufficiente a coprire gli altri suoni. Costruendo muri sonori –invece che materiali- attorno alla propria scrivania.

Chiara Mezzalira

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