CULTURA

Il fascino dell'architetto, una storia di cinema

L'ultimo, in ordine di tempo, è il documentario di Sabine Gisiger appena arrivato in poche e selezionate sale italiane. Si intitola Mies van der Rohe - Le linee della vita e offre un punto di vista inedito sulla vita di uno dei più grandi architetti del Novecento. Ludwig Mies van der Rohe viene raccontato attraverso le esperienze delle donne a lui vicine nella sfera privata e nella carriera, proponendo una prospettiva insolita e intima sulla famiglia e sulle relazioni, partendo da filmati d'archivio, fotografie e documenti privati. Una nuova opera cinematografica mette, ancora una volta, al centro l'architettura e in particolare la figura dell'architetto, centrale per la società e le sue trasformazioni. Ne abbiamo parlato con Stefano Zaggia, storico dell'architettura e docente all'ateneo di Padova. "Il rapporto tra cinema e architettura è profondo e antico, alla base della storia e dello sviluppo stesso della settima arte - spiega -. Le prime immagini dei fratelli Lumière inquadrano persone in movimento in un contesto urbano, solo più tardi arriveranno quelle famosissime del treno. Il rapporto con lo spazio definisce il linguaggio cinematografico, tutti i film sono ambientati in un contesto: naturale, all'aria aperta, o in spazi costruiti. L'architettura fa parte dello sfondo e, dicendola come per il teatro, della scenografia, in cui si ambientano le vicende: possono essere spazi più o meno complessi. Ci sono poi le scelte delle location, a cui si arriva attraverso una serie di sopralluoghi: si scelgono gli ambienti, gli edifici, gli spazi che servono a raccontare o ad accompagnare la storia. Succede anche con la colonna sonora. Sono gli ingredienti per fare un film”. E poi c’è l’architetto, figura irresistibile non solo per il documentario, come già detto, ma anche per la letteratura e il cinema di finzione che, nel tempo, hanno preso ispirazione dalla realtà e dalla storia per costruire nuovi personaggi con personalità affascinanti e complesse: “Prendiamo, per esempio, La fonte meravigliosa. Al centro ci sono un uomo e le relazioni che intesse con il contesto in cui è ambientata la vicenda. Si parte da una figura di riferimento e da un modello presi come ispirazione, la vita di Frank Lloyd Wright e quel momento storico di grande sviluppo delle città americane. Siamo dunque di fronte a un altro possibile utilizzo dell'architettura all'interno della storia".

La fonte meravigliosa a cui ci si riferisce è un film del 1949 diretto da King Vidor e, ancor prima, il romanzo (omonimo) di Ayn Rand su cui si basa la pellicola. Racconta la storia del talentuoso e visionario architetto Howard Roark (interpretato al cinema da Gary Cooper) che si trasferisce a New York per realizzare i propri sogni senza voler scendere a compromessi. Per il romanzo, come anticipato sopra, Ayn Rand si ispirò alla figura di Frank Lloyd Wright, e proprio da questa storia ha recentemente preso ispirazione Brady Corbet per il suo The Brutalist. La tracce sono evidenti a partire dalla figura carismatica e complessa dell'architetto László Tóth che, nell'opera diretta da Corbet - miglior attore (Adrien Brody), miglior fotografia e miglior colonna sonora agli Oscar 2025, appena assegnati - è un uomo geniale e tormentato, giunto dall'Ungheria in una America di fine anni Quaranta che lo mette a dura prova, ora umiliandolo profondamente, ora concedendogli incredibili opportunità. 

"Pur con qualche semplificazione perché, in realtà, va considerato un contesto allargato e complesso all'interno del quale un architetto non lavora mai da solo - commenta Zaggia -, il cinema ha raccontato una figura che, in qualche modo, è possibile associare a quella dell'artista. L'architettura può essere considerata arte, ma è l'arte più costosa: costruire un edificio, infatti, è immensamente più dispendioso rispetto alla realizzazione di un'opera d'arte, anche solo materialmente, al di là dell'indiscutibile valore dell'opera di un artista". E Zaggia continua: "L'architetto elabora idee che riguardano le persone, è colui che organizza lo spazio all'interno del quale tutti viviamo. Ha sempre lo sguardo rivolto verso la società, concepisce, studia e realizza un progetto ma ha bisogno delle risorse per costruire, dello spazio in cui collocare l'edificio e degli investimenti concreti per procedere. Come diceva Aristotele, l'architettura è politica: è proprio questo aspetto a superare il concetto di artista. Alla fine del film The Brutalist, la nipote di Tóth dice che per lui l'architettura era un fatto quasi minerale, nudo e crudo. Tuttavia io penso che l'architettura abbia sempre una doppia anima: simbolica e sociale-politica".

La sfida risiede nel costante confronto con le proprie ambizioni, una società in continua trasformazione e, prima ancora e prima di tutto, con la natura: da un lato, nel costante tentativo di superare i limiti imposti dal possibile, dall'altro - oggi più che mai - con la consapevolezza di essere parte di qualcosa che ci precede e che non potremo superare. Alla Berlinale del 2024, il regista Victor Kossakovsky ha presentato un documentario dal titolo Architecton fondato proprio sul sogno di una architettura sostenibile e sulla relazione dell'essere umano con l'elemento naturale e, nello specifico, con la pietra. Protagonista è l'architetto e designer italiano Michele De Lucchi, impegnato in un progetto paesaggistico, attraverso il quale il regista avvia una riflessione sull'architettura, sulla progettazione e la costruzione di edifici nel tempo, a partire da una domanda fondamentale: come costruiamo oggi e come potremo costruire meglio in futuro?

Le vite degli architetti sono state messe al centro di numerosi documentari, con esiti diversi. Qui ricordiamo Renzo Piano: l'architetto della luce, lavoro del 2018 firmato da Carlos Saura dedicato all'architetto italiano che definisce la luce "il materiale più importante del costruire" e tratteggia il profilo ideale dell'architetto attraverso un "filo rosso che tiene insieme la tecnica e la poesia".

Per concludere, torniamo indietro di oltre vent'anni per rintracciare l'opera My architect, documentario del 2003, candidato agli Oscar, in cui la vita dell'architetto americano Louis Kahn viene raccontata dal figlio Nathaniel. Sue le parole con cui si chiude questo breve viaggio, una sintesi dell'ambizione e il sogno dell'architetto che immagina e lavora a progetti grandiosi senza la certezza di vederli infine realizzati: "Talvolta, le cose per cui lottiamo e lavoriamo tanto nella vita, non le vedremo mai compiute. Questo mi ha colpito molto di mio padre: credeva fortemente che, in qualche modo, impegnandosi in quelle cose e offrendo il suo contribuito, ne sarebbe venuto fuori qualcosa di buono", anche quando lui non ci sarebbe stato più.

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