SOCIETÀ
Sorvegliare e punire. La scuola delle punizioni corporali negli Usa
Foto: HRW.org
C’era una volta in Italia il cappello dell’asino, cui erano costretti gli scolari chiassosi che, dopo aver ricevuto dagli insegnanti una bacchettata sulle dita con il righello rigido, erano poi mandati a pentirsi delle proprie malefatte dietro la lavagna. Cose che per noi hanno un sapore antico, ma che in America sono ancora molto attuali. Le punizioni corporali di studenti di ogni età e grado sono infatti legali in diciannove stati dell’Unione, tra cui almeno una manciata ne fa uso regolare.
“Per me è cominciato tutto in seconda elementare – dice Carlos Chaverst, ventenne di Birmingham, in Alabama, che già da qualche tempo si è fatto portavoce di quel gruppo tutt'ora numeroso di giovani americani che vengono colpiti dagli insegnanti – Avevo una maestra che, ogni volta che le davamo problemi, ci picchiava sulle dita con lo stick della colla e sulle gambe con un lungo righello di legno”. Stessa cosa alle scuole medie e superiori, dove Chaverst e compagni venivano frequentemente bastonati dai docenti, dal preside, dal vice preside e dagli allenatori delle squadre sportive, spesso a casaccio e con strumenti via via più pericolosi, ultimo dei quali una paletta in legno larga e spessa, l’equivalente circa di una mazza da cricket.
Questa usanza è diffusa in particolare nelle zone rurali degli Stati uniti meridionali, dalla Georgia alla Louisiana, dal Mississippi al Texas. Una indagine pubblicata questa settimana dall’Atlanta Journal-Constitution rivela che, a quanto risulta soltanto dai casi documentati, l’anno scorso il corpo docente in 97 distretti scolastici georgiani (ad esclusione dell’area metropolitana di Atlanta) ha percosso i propri studenti per un totale di 16.000 volte almeno.
A livello nazionale, i dati sono poco indicativi, soprattutto perché l’amministrazione dell’ex presidente George W. Bush ha deciso di interromperne la raccolta nel 2006 (Barack Obama l’ha riattivata nel 2009, ma si è ancora in attesa dei primi rilevamenti sulle punizioni corporali). Gli ultimi numeri disponibili suggeriscono che circa 225.000 studenti abbiano subito punizioni fisiche dai propri insegnanti in un modo o nell’altro nell’anno scolastico 2006-2007. Secondo Deborah Vagins, legale dell’American Civil Liberties Union (Aclu) a Washington, si tratta di una sottostima, per due ragioni in particolare. “Innanzitutto questo calcolo dipende dai ragazzi che si fanno avanti e riportano tali episodi, un gruppo senz’altro inferiore al totale delle vittime – nota Vagins – In secondo luogo, la cifra si riferisce agli studenti colpiti e non alla frequenza con cui sono colpiti, quindi non offre un’immagine accurata della situazione”. Secondo Vagins è probabile che negli stati in cui le punizioni corporali a scuola sono ancora legali si verifichino circa due o tre milioni di casi l’anno.
Tristemente, anche se non sorprendentemente giacché questo fenomeno si concentra negli stati del Sud, ne sono vittima in particolare gli studenti più disagiati, i ragazzi neri e quelli disabili. Nel 2006-2007, ad esempio, gli studenti di colore rappresentavano il 17,1% di tutti gli iscritti alle scuole pubbliche americane ma ben il 35,6% di quelli battuti.
Va detto, però, che anche in America di sostenitori convinti di questa pratica ne rimangono pochi. In un sondaggio condotto da Abc News nel 2007 il 72% degli intervistati si diceva contrario. E il numero di Stati che la permette è in continuo calo. A partire dagli anni Ottanta, una serie di parlamenti statali – nel 2011 è stato il turno del New Mexico – ha approvato moratorie in proposito. Ma non ovunque è così, in particolare nel sud degli Usa, negli stati ex confederati. Nelle piccole cittadine conservatrici della "Bible Belt", dove tutti si conoscono da sempre e dove non c’è grande mobilità geografica e, quindi, pressoché nessuna esposizione al resto del Paese e del mondo, la tradizione continua a imporsi.
“In queste comunità, gli adulti hanno avuto gli stessi insegnanti e ricevuto lo stesso trattamento riservato ora ai giovani – dice a Deborah Sendek, program director del Center for Effective Discipline in Ohio – quindi per loro la questione è: se una mazzata sul sedere ha insegnato a me un po’ di disciplina, allora perché non dovrebbe fare bene anche ai ragazzi di oggi?”.
In questo senso, e come spesso accade nel campo dei diritti umani, gli Stati Uniti sono un’eccezione alla regola, perlomeno nel mondo occidentale. In Europa, come anche in Canada, Nuova Zelanda e Sud Africa, le punizioni corporali a scuola sono proibite da tempo. Lo stesso principio è contenuto anche nella Convenzione sui Diritti del bambino, formulata dalle Nazioni Unite nel 1989 e ormai ratificata da tutti gli stati membri tranne Somalia, Sudan meridionale e, per l’appunto, Stati Uniti.
“In America, l’enfasi continua a essere posta sull’importanza del controllo locale dei distretti scolastici – dice Alice Farmer, ricercatrice nell’ambito dei diritti dei bambini per Human Rights Watch – in particolare in quelle parti del Paese in cui la gente guarda con sospetto all’autorità del governo federale e preferisce fare secondo tradizione”.
Di qui, le grandi discrepanze che esistono fra una regione e l’altra degli Stati Uniti e il fatto che varie proposte di legge per un divieto nazionale delle punizioni corporali a scuola si susseguono ormai da anni al Congresso di Washington senza nessuna chance di approvazione.
Ai ragazzi americani non rimane quindi che sperare nell’attivismo di base e augurarsi che il ricorso alla violenza come strumento disciplinare venga rigettato genitore dopo genitore, insegnante dopo insegnante e preside dopo preside, cadendo così progressivamente in disuso.
Valentina Pasquali