SCIENZA E RICERCA

Stati Uniti, Cina e Non proliferazione nucleare

Le sorti del disarmo, obiettivo ultimo voluto dall’art. VI del Trattato di non proliferazione (TNP), sono legate al CTBT (Comprehensive Test Ban Treaty) non solo da un punto di vista pratico, ma anche da un punto di vista giuridico. Nel 1995, tutti gli Stati parte del TNP – giunto alla prima scadenza, dopo 25 anni dalla sua entrata in vigore - accettarono che il Trattato fosse prorogato a tempo indeterminato, pur lasciando inalterata la differenza fra Stati militarmente nucleari e non. Questi ultimi, accettando di rinunciare sine die all’opzione nucleare, contavano però su di un rinnovato impegno anche delle Potenze nucleari verso la realizzazione del disarmo generale e completo indicato dall’art. VI.

Su questa strada, il documento finale della Conferenza per il riesame del 2000 indica i cosiddetti 13 practical steps, misure concrete da seguire per avvicinarsi all’obiettivo finale voluto dall’art. VI. Il primo passo è precisamente la ratifica, senza ulteriore indugio, del CTBT. Il documento finale non ha natura di trattato internazionale, pertanto non si può pensare che esso abbia reso obbligatoria la partecipazione al Trattato. Tuttavia, si può considerare – applicando regole generali sull’interpretazione dei trattati internazionali – che i 13 passi costituiscano un elemento della prassi di cui tener conto nell’interpretazione dello stesso art. VI del TNP.

Ne risulta che la ratifica del CTBT è da considerarsi il modo più efficace di avvicinarsi all’adempimento dell’obbligo stabilito dall’art. VI: in altre parole gli Stati, ratificando il CTBT, possono dimostrare la propria volontà di iniziare il percorso verso l’obiettivo di disarmo previsto dall’art. VI. Rispetto agli altri successivi 12 passi, il primo ha un significato particolare: non tanto - o non solo - per l’ordine di esposizione, ma anche perché è l’unico che avvia un tipo di cooperazione basato su di un trattato multilaterale, sotto effettivo controllo internazionale, quale è appunto il CTBT: vale a dire, un trattato avente le stesse caratteristiche di quello previsto dall’art. VI del TNP. Dunque, la ratifica del CTBT sarebbe la prova più evidente di un impegno – almeno iniziale –  verso quell’obiettivo. Non possono considerarsi giuridicamente equivalenti dichiarazioni unilaterali di moratoria agli esperimenti nucleari, poiché si tratta in ogni caso di impegni unilaterali, non obbligatori sul piano giuridico e, quindi, liberamente revocabili.

Quali le possibilità che SU e Cina ratifichino il CTBT? Per quanto riguarda la seconda, gli osservatori ritengono che la ratifica non verrebbe esclusa a priori e potrebbe facilmente intervenire, ma dopo che vi avessero provveduto gli Stati Uniti.

La posizione degli Stati Uniti è quindi quella da seguire con maggiore attenzione. Il Presidente Clinton era in verità fra i maggiori promotori e sostenitori del CTBT e, anzi, nel proprio discorso all’Assemblea delle Nazioni Unite nel 1996 riferì di aver avuto l’onore di essere stato il primo leader a firmare il testo dell’accordo e, di più,  di averlo fatto proprio “con la stessa penna” con la quale il Presidente Kennedy aveva firmato, nel 1963, il PTBT. Nonostante gli sforzi personali del Presidente, però, il Senato americano nel 1999 rifiutò la ratifica del trattato e l’occasione per un riesame non si è, finora, ripresentata. La successiva amministrazione repubblicana – nel clima di forte apprensione per la sicurezza nazionale seguito all’11 settembre - dichiarò, senza mezzi termini, che gli Stati Uniti non avrebbero mai ratificato il CTBT. Il programma del Presidente Obama prevedeva la riproposizione al Senato della questione, tanto che il Segretario di Stato H. Clinton, alla Conferenza di revisione del 2010, dichiarava che gli Stati Uniti erano pronti a ratificare il trattato. Tuttavia, ad oggi, questo non è accaduto.

La resistenze politiche interne sono molto forti. Del resto, fra i giuristi americani il dibattito sullo stesso art. VI del TNP è tuttora vivace, a volte aspro. Alcuni studiosi, infatti, sostengono che tale articolo non imponga un vero e proprio obbligo giuridico, ma contenga solo una sorta di esortazione a perseguire il disarmo, non vincolante per le Potenze nucleari, tanto meno in relazione al come e al quando il disarmo sia da  realizzare. La semplice lettura del testo dell’art. VI in realtà basta a smentire questa interpretazione riduttiva, che peraltro è basata solo sull’analisi dei lavori preparatori del Trattato. E’ metodo, questo, che non rispetta le regole sull’interpretazione dei trattati stabilite dal diritto internazionale, che vogliono sia cercato il significato oggettivo del testo, come risulta dal tenore letterale e dall’insieme delle sue norme (senza dire che altri studiosi, sempre basandosi sui lavori preparatori raggiungono conclusioni opposte…).

Già si è detto di come la ratifica del CTBT, atto volontario e libero di ciascuno Stato, non sia divenuta obbligatoria per effetto della sua previsione nel documento contenente l’agreement sui cosiddetti 13 passi. Questo, infatti, non è un accordo internazionale vero e proprio e non produce perciò effetti vincolati. Tuttavia, il contenuto di quel documento è stato pur sempre concordato dalla totalità degli Stati parte del TNP – Potenze nucleari comprese – e può legittimamente essere utilizzato per l’interpretazione dell’art. VI del TNP: per affermare, come si è detto, che uno Stato che provveda alla ratifica stia seriamente cominciando a dare attuazione allo stesso art. VI. Per chi non lo facesse, dovrebbe dirsi, evidentemente, il contrario: questi Stati danno spazio, in altri termini, ad accuse di non conformità all’art. VI del TNP. Gli effetti negativi di questo per la situazione complessiva della non proliferazione si colgono, fra l’altro, proprio dall’esame delle obiezioni sollevate dall’Iran agli addebiti ricevuti per sospetta violazione del TNP: obiezioni con cui questo Stato eccepisce che anche gli Stati Uniti… stanno continuando a violare l’art. VI. Anche il diritto internazionale conosce il principio inadimplenti non est adimplendum e così, giuridicamente, l’obiezione non può dirsi infondata.

Se la perdurante assenza di ratifica, per quanto finora esposto, non dà luogo ad un illecito internazionale, è tuttavia da chiedersi se tale omissione possa davvero considerarsi del tutto priva di effetti sul piano giuridico. In questo particolare contesto, considerato cioè il legame che la ratifica del CTBT ha con l’art. VI del TNP, e tenuto conto della partecipazione degli stessi Stati Uniti alla redazione dei 13 passi che tale legame hanno stabilito, può ritenersi, ad avviso di chi scrive, che si produca un particolare obbligo in capo agli USA (e la stessa cosa vale per la Cina). Si tratta di un obbligo (non di ratificare, ma almeno) di motivare in modo esaustivo, a livello internazionale, di fronte a tutti i partners del TNP, le ragioni della mancata ratifica. Diversamente saranno esposti essi stessi, come si è detto, ad addebiti - non infondati - di violazione dell’art. VI del TNP.

A vincere le resistenze del Senato americano verso la ratifica del CTBT, dovrebbe poter contribuire il recente rapporto della National Academy of Sciences, del 30 marzo 2012, in cui si rileva come gli Stati Uniti siano oramai in grado di testare l’efficienza delle proprie armi nucleari senza bisogno di ricorrere a test esplosivi (che in realtà possono ora essere sostituiti da simulazioni a computer). Questo dovrebbe offrire nuovi argomenti per accettare finalmente il Trattato, favorendo una situazione di maggiore fiducia reciproca fra le Parti contraenti, da cui possa derivare anche una più stretta cooperazione nella lotta al maggiore comune pericolo, dato dalla possibilità che gruppi terroristici possano arrivare ad avere la disponibilità di armi nucleari.

 

Alessandra Pietrobon

 

(2/fine)

 

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