SCIENZA E RICERCA

L’omeopatia? "È acqua fresca”

Chi vuole arricchirsi usando il cervello non deve per forza scegliere la carriera di un “lupo” di Wall Street, di un eccentrico programmatore della Silicon Valley o di un grande scienziato alla scoperta di molecole dalle proprietà prodigiose per la salute dell'uomo. Fondazioni, Ong. e ricchi filantropi mettono a disposizione succulenti montepremi per curiosi dilettanti o per allenati addetti ai lavori che riescano a fare scoperte in diversi ambiti dello scibile umano. Già più di un secolo fa, nel 1908, fu istituito a Darmstadt in Germania il premio Wolfskhel, in onore di Paul Friederich Wolfskehl, un abbiente industriale. In palio, 100.000marchi a chi risolvesse il criptico teorema di Fermat, indipendentemente da qualifiche accademiche o titoli di studio. Si dovettero attendere 98 anni prima che qualcuno potesse ritirare la somma. Andrew Wiles risolse il teorema nel 1996 dopo tre anni di dimostrazioni ed elaborazioni matematiche portate avanti nella massima segretezza.

Per gli amanti dei numeri, la Electronic Frontier Foundation, una Ong. “dedita a difendere le libertà civili per la crescita e lo sviluppo della rete internet nel mondo”, è pronta a premiare chi scopra un numero primo degno di nota. Per la scoperta di un numero primo con un milione di cifre decimali sono messi in palio 50.000 mila dollari. Il jackpot verrà quintuplicato a chi invece riuscirà ad identificare un numero primo con ben un miliardo di cifre decimali.

Ai medici che aspirano a diventare ricchi come zio paperone, viene proposta un’altra sfida, questa volta da James Randi, presidente della James Randi Educational Foundation. Prestigiatore ed illusionista ormai in pensione, da sempre Randi è andato a “caccia di misteri con la lente della scienza”. Con questo spirito offre 1 milione di dollari americani a chi sia in grado di individuare almeno 40 rimedi da 50 farmaci omeopatici diversi e 50 boccette contenenti solo solvente (tipicamente acqua e alcol) .

Purtroppo, ogni aspettativa di successo per chiunque voglia raccogliere il guanto di sfida lanciato da Randi sarà vana. A spiegarlo, è venuto da Milano, il professore e medico farmacologo di fama internazionale, Silvio Garattini, direttore dell'IRCCS “Mario Negri”. Il ricercatore meneghino è stato invitato lo scorso martedì sera dagli studenti de “l'Ombra di Galileo” a tenere una breve lectio proprio sull'omeopatia e sulla sua presunta efficacia al dipartimento di Chimica dell'ateneo patavino. Per poter capire come mai quell'assegno da 1 milione di dollari della fondazione di Randi non verrà mai incassato basta capire come viene realizzato un farmaco omeopatico. Da quando la pratica omeopatica vide la luce, più di due secoli fa, in Sassonia, la realizzazione dei suoi preparati è rimasta sempre la stessa e segue ligia le indicazioni di Samuel Hahnemman, il padre di questa medicina così detta alternativa. L'alchimista del XIX secolo come il farmacista del duemila, estratto un centimetro cubico di “tintura madre” (ovvero il principio attivo originario, oscillococinum, apis mellifica, apis belladonna poco importa) lo diluisce in 99 centimetri cubici di solvente. Dopo avere agitato vigorosamente la soluzione appena ottenuta (Hahnemmann suggeriva non meno di un centinaio di “succussioni”), tutta l'operazione viene ripetuta un'altra volta. E così via per dodici, venti, trenta diluizioni successive. La teorica forza di questi preparati, in bella mostra sui ripiani di farmacie e parafarmacie, sta nell' introdurre nell' organismo una minima quantità di una certa sostanza che, se non fosse diluita, causerebbe un corredo di sintomi analoghi al male che si vuole curare, ma che, sciolta più e più volte in acqua e alcol, produrrebbe effetti terapeutici e non sarebbe affatto tossica.

Questo metodo fa storcere il naso a molti scienziati: di preciso quanto principio attivo si ritrova in queste diluizioni? E secondo quale farmacocinetica o base immunologica il meccanismo omeopatico dà beneficio ad un organismo colpito dagli insulti di una malattia?

Luigi Sabbatani, medico e libero docente di farmcologia, nel 1921 si era posto le stesse domande. Lo aveva fatto proprio cento metri più in là dall' aula dove Garattini raccontava dell'omeopatia: precisamente nei laboratori di via Marzolo del dipartimento di Farmacia di Padova. E lì, come si suol dire, il proverbiale asino cadde. All'epoca era noto che nella mole, l'unità di misura della quantità di sostanza, era contenuto un numero ben definito di molecole e che tale numero era costante per qualsiasi elemento (il numero di Avogadro, famoso tra chimici e affini). Sabbatani, con semplici calcoli, dimostrò che dopo appena dodici diluizioni hahnemmanniane nemmeno una molecola della tintura madre originaria era rimasta nella soluzione.

Come può qualcosa che non c'è essere identificato e quindi permettere al fortunato di essere più ricco di 1 milione di dollari? Come può un granulo di zucchero imbevuto in una soluzione omeopatica di oscillocinum che ha solo acqua e alcol, sciolto sotto la lingua di un bimbo influenzato, farlo guarire? “Non può” risponde con candore e semplicità Garattini. I trattamenti che omeopati, farmacisti e in generale i fan di Hahenamman propongono come panacea di molti mali altro non sono che somministrazione di granuli di zucchero (pagati in media la bellezza di duemila euro al chilogrammo), di soluzioni prive di sostanze attive, di creme che sono poco più di burro cacao: in sostanza, come titola il libro a cura di Garattini, “acqua fresca”.

Questo ramo della medicina alternativa (o complementare come sarebbe più corretto dire) sembra non godere di una buona reputazione non solo presso l'istituto milanese “Mario Negri” ma anche tra i medici dello stivale. Dai dati FNOMCeO (Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e Odontoiatri), emerge che i medici dichiaratamente omeopati sono una netta minoranza. Circa 1 ogni 3000. IMS health, nella sua attività di rilevazione statistica, scorrendo le percentuali sull'andamento del mercato dei farmaci omeopatici dal 2010 al 2014 nota un declino constante dei “pezzi venduti”, più o meno un - 8%. Se si guarda alla letteratura scientifica si rimane ugualmente delusi circa la millantata efficacia dell'omeopatia. Nell'intero PubMed, uno dei database pubblici della produzione scientifica biomedica per eccellenza, su circa 440.000 pubblicazioni mediche appena 100 hanno in qualche modo a che fare con l'omeopatia. Un numero che denota un'attività piuttosto pigra se si pensa che i sostenitori dell'omeopatia per raccogliere prove, condurre trial clinici e fare ricerca secondo i sacri crismi del metodo scientifico, hanno avuto a disposizione più di due secoli.

Ad onor di cronaca c'è stato chi, fregiato del prestigioso titolo di direttore del Institut National de la Santè et de la Recherce médicale (INSERM) e con alle spalle una carriera in campo biomedico che gli ha valso riconoscimenti internazionali, è riuscito a provare l'efficacia dell'omeopatia su riviste che sono il gold standard della letteratura bioscientifica. Sul finire degli anni '80 Jacques Benveniste pubblicò su Nature una scoperta di notevole portata: un siero diluito secondo la farmacopea omeopatica per 120 volte aveva ancora una sua propria attività biologica. Ed era stata rilevata dal medico francese. Il terremoto nella comunità scientifica fu di notevole magnitudo. Nel 1988, proprio il direttore di Nature, John Maddox, che aveva acconsentito alla pubblicazione del paper di Benveniste, decise di mettere fine alle polemiche chiedendo che venissero condotti rigorosi esperimenti per riprodurre i test di laboratorio dal direttore dell'INSERM. Un articolo a firma Maddox – Randi – Steward apparso alle pagine 287 – 91 del numero 334 di Nature, chiarì fin dal titolo che “gli esperimenti con le alte diluizioni sono una delusione”. La memoria dell'acqua, ovvero la possibile spiegazione chimica al falso fenomeno scoperto da Benveniste, fu un ulteriore fiasco.  Secondo questa ipotesi la configurazione delle molecole di acqua attorno ad una molecola di un principio attivo disciolta in essa, si conserverebbe anche dopo la scomparsa della molecola sciolta. Una sorta di calco. L'impronta che le sostanze lasciano sull'acqua. Niente di più falso. Le interazioni elettrostatiche che preserverebbero questa organizzazione molecolare attorno a ciò che non c'è più sono della durata di 50 femto secondi (ovvero la “diecimilamiliardesima” frazione del secondo). Un tempo ridicolamente piccolo. Del tutto insufficiente per permettere ad un farmaco omeopatico di entrare in azione. E per fortuna che l'acqua è così “smemorata”. Altresì sarebbe un calco di tutte le sostanze che la attraversano e un veleno dalla persistente tossicità più che letale per l'uomo. Lo sfregio alla reputazione di Benveniste fu reso ancora più deturpante quando si scoprì che lo studio incriminato era cofinanziato dalla Boiron, grosso produttore di farmaci omeopatici. Alla fine del suo mandato il medico francese decise di uscire di scena non proponendosi più alla guida dell'istituto che aveva per anni diretto.

Quanta energia, tempo e denaro pubblico vengono scialacquati per monitorare, regolamentare e permettere la vendita di prodotti omeopatici privi di qualsiasi azione terapeutica, ci ricorda con rammarico Garattini. Tante risorse che ogni anno i vari Telethon, Airc, IOV sarebbero più che felici di usare per la loro attività di ricerca nella lotta al cancro e alle malattie rare. A proposito di questo spreco di mezzi, Grarattini propone il paragone del vino annacquato: “Come non saremmo così sciocchi da comprare ad un prezzo esorbitante un “Amarone” della Valpolicella diluito migliaia e migliaia di volte in acqua, allo stesso modo non dovremmo cadere nell'inganno teso da chi ci vuole vendere acqua fresca al posto di una cura.” Quando si parla di omeopatia, il prezzo, ancor prima che sulle nostre tasche, incide sulla nostra pelle.

Tommaso Vezzaro

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