CULTURA

Libri, isole e muri ai Giardini della Biennale

Integrità, intelligenza, intuizione, verità. A queste parole la Biennale di Architettura di Venezia 2018 accosta il nome del vincitore del Leone d’oro alla carriera, Kenneth Frampton. Che è certo un architetto ma, prima di tutto, per ogni singolo studente o ex-studente d’architettura dagli anni Ottanta ad oggi, è un libro: la Storia dell’architettura moderna. È un omaggio non scontato quello che le curatrici della Biennale, Yvonne Farrell e Shelley McNamara, fanno a un maestro che “si distingue come la voce della verità nella promozione dei valori chiave dell’architettura e del suo ruolo nella società”. Con lui viene premiata una “filosofia umanistica radicata nella scrittura". Viene premiata un’architettura immateriale, di filosofia e di parole scritte, e il suo insegnamento critico.

Attraverso il suo lavoro Kenneth Frampton occupa una posizione di straordinaria intuizione e intelligenza, combinata con un senso di integrità unico. Si distingue come la voce della verità nella promozione dei valori chiave dell’architettura Yvonne Farrell e Shelley McNamara

La questione didattica e quella della trasmissione responsabile del progetto ritornano in questa Biennale anche nel padiglione spagnolo, grande spazio racchiuso da muri altissimi e fittissimi di progetti, disegni, parole, schemi, uno sopra l’altro. Vi si richiamano i concetti chiave del costruire contemporaneo: “partecipativo”, “virtuale”, “sostenibile”, “ibrido”, “inclusivo” e altre cinque decine di etichette vengono applicate a versioni tanto fluide quanto necessarie della realtà. Si dipanano così, nel motto del progetto - Becoming  -, le centinaia di proposte di giovani architetti e studenti di architettura. Le idee sono tante, dappertutto: per studiarle e capirle, una alla volta, basta prendere una delle sedie, spostarla, sedersi e fermarsi a leggerne i segni.

A questa ipertrofia progettuale, la Gran Bretagna contrappone “Isola”, un’idea semplice e potente che risponde a tono alla sollecitazione delle curatrici della Biennale - ossia quella di creare Freespace, spazio libero e gratuito – e che molto anche dice di un paese che, in un’Europa post-Brexit, deve reinterpretare la propria insularità. Lo studio che ha curato l’idea progettuale, Caruso St John Architects, ha interpretato quasi alla lettera le parole di Alejandro de la Sota, secondo il quale  gli architetti dovrebbero “non far niente il più possibile”: ha dunque svuotato completamente gli interni del padiglione (spazio libero), offrendoli al pubblico per attività temporanee, dibattiti, performances (spazio gratuito). A questo padiglione vuoto e “abbandonato”, abitato solo dalla luce riflessa delle pareti bianche, è stata sovrimposta un’impalcatura che permette di salire sul tetto; lì una sorta di grande altana alla veneziana ospita un ampio spazio assolato e dedicato al relax, da cui godere del panorama della laguna e bere un tè, servito rigorosamente alle 16.

Indagano il significato della propria identità nazionale e culturale, scavando però nei punti più dolenti della propria realtà, anche i progetti presentati nei padiglioni degli Stati Uniti e di Israele. All’ombra del muro che segna la frontiera americana e messicana, il primo affronta un coraggioso dibattito articolato sulla dimensione della “cittadinanza”. Agli architetti si chiede una presa di posizione a sui concetti di “appartenenza” e di “inclusione”, li si interroga sul valore di azioni contenitive in un mondo governato da profonde trasformazioni geopolitiche, nello sviluppo continuo di tecnologie digitali e di circolazione transnazionale di capitali. Muri, isolamenti, separazioni e conflitti ritornano inevitabilmente nel padiglione di Israele che, con il progetto “In statu quo”, mostra lo sforzo di negoziazione al quale l’architettura  deve sottoporsi per risolvere incessanti rivendicazioni territoriali. Cinque spazi sacri a diverse religioni fanno da sfondo a balletti ritmici di cerimonie alternate, di strutture temporanee divenute per necessità permanenti, di cambi repentini di scenografia che trasformano i luoghi conferendo loro diverse identità spaziali.

Questi sono solo alcuni spunti usciti dalla Biennale dell’Architettura 2018. Perché sono ben sessantatré le partecipazioni nazionali a questa edizione: un’enormità di voci e proposte progettuali su di un tema forse non troppo originale, quello proposto dalle curatrici, ma sicuramente eco del bisogno di un’architettura che sappia essere generosa. E che si faccia sentire, da tutta la società.

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