SOCIETÀ

Alluvione in Polesine: 70 anni dopo il Veneto è ancora fragile

È il 14 novembre 1951, intorno alle otto di sera, quando il Po rompe gli argini nei comuni di Canaro (in località Vallice di Paviole) e Occhiobello (Bosco e Malcantone). Nella notte dalle tre rotte esce un’autentica valanga d’acqua: 8 miliardi di metri cubi che invadono 100.000 ettari di terreno, quasi due terzi dell’intera provincia di Rovigo. Per undici giorni, fino al 25 novembre, le acque fangose del grande fiume sommergono, distruggono e uccidono, causando un centinaio di morti e costringendo all’esodo 180.000 persone s. Un terzo di loro, costretto a intraprendere la via dell’emigrazione, non farà più ritorno.

Ancora oggi, a 70 anni di distanza, si continua ad associare il Polesine a quella tragedia, ma anche alla voglia di riscatto della sua gente. A lungo gli effetti delle devastazioni hanno pesato sullo sviluppo di quella terra, fino a tempi recenti la più povera dell’Italia settentrionale: soltanto nel 2007 il pil pro capite della provincia di Rovigo ha superato stabilmente la media italiana. L’alluvione del 1951 è però anche il simbolo di un rapporto difficile dell’uomo con il territorio, destinato inevitabilmente a peggiorare se i cambiamenti climatici continueranno il loro corso. Queste ed altre riflessioni sorgono spontanee dalla visita alla mostra 70 anni dopo. La Grande Alluvione, fino al 31 gennaio 2022 a Palazzo Roncale (Rovigo), curata da Francesco Jori con la collaborazione di Sergio Campagnolo.

    Il percorso espositivo, assieme al libro appena dato alle stampe dallo stesso Jori (I Giorni del Diluvio. Il Polesine e la Grande Alluvione del 1951, Biblioteca dell’Immagine 2021), racconta anche quella che forse fu la prima calamità naturale a diventare un evento mediatico nel nostro Paese, in un’epoca nella quale la televisione doveva ancora nascere. A raccontarla furono i cinegiornali e i grandi inviati come Enzo Biagi, Orio Vergani, Oriana Fallaci, Egisto Corradi e Paolo Monelli; tra loro anche il giovane Gian Antonio Cibotto, le cui Cronache dell’alluvione, recentemente ristampate, costituiscono ancora oggi un documento eccezionale. Ma l’allagamento del Polesine fa anche capolino in alcune intense pagine della popolare saga di Giovannino Guareschi, poi trasposte sulla pellicola cinematografica ne Il ritorno di Don Camillo (1953).

    Quello del 1951 è stato forse il più grande evento di piena mai registrato sul Po – spiega a Il Bo Live Luigi D'Alpaos, docente emerito di idraulica presso l'università di Padova –. Diciamo però la verità: prima la situazione del fiume era tutt’altro accettabile, soprattutto in Polesine”. Da allora, secondo lo studioso, gli interventi ci sono stati, imponenti: “è stata alzata e rinforzata l’arginatura del fiume, rimediando anche alle conseguenze negative delle estrazioni delle acque metanifere dal sottosuolo, che soprattutto negli anni ‘60 e ‘70 aveva dato luogo a un intenso fenomeno di subsidenza. Sono state inoltre alzate anche le arginature a mare adeguandole alle massime maree, dato che i territori del delta vengono in gran parte da bonifiche e che in diversi punti si trovano al di sotto del livello del mare”. Un gran lavoro in gran parte realizzato con l’istituzione dopo l’alluvione della figura del magistrato del Po, oggi Agenzia Interregionale per il fiume Po (AIPO), che ha contribuito in maniera determinante a rendere più sicura la condizione idraulica del Polesine: qui le ultime grandi piene non hanno causato grossi danni.

      Da "Il ritorno di Don Camillo" (1953)

      Se il Polesine oggi è relativamente tranquillo, lo stesso però non si può dire per il resto del territorio padano, specie in Veneto. Quella delle inondazioni a Nordest è una storia antica (ne scrive già Tito Livio), ma guardando al futuro le prospettive sono ancora più preoccupanti. Anche se secondo alcuni proprio fatti come quello del ‘51 dimostrerebbero che inondazioni e allagamenti non possono essere addebitati esclusivamente al riscaldamento globale. “Gli effetti dei cambiamenti climatici si vedono già chiaramente in alcune situazioni, ad esempio nell’innalzamento del livello medio del mare – continua D’Alpaos –. Per quanto invece riguarda entità e dimensioni degli eventi atmosferici, forse è passato ancora troppo poco tempo per osservare delle differenze. Quello che è certo è che negli eventi idrogeologici conta, oltre al volume delle precipitazioni, anche l’uso che facciamo del territorio, e quella che vediamo purtroppo è un’assoluta mancanza di progettazione: non sono stati posti limiti, gli speculatori hanno fatto i loro interessi e i problemi adesso sono sulla testa di tutti”.

      Dopo l’alluvione del 1966 il Veneto si trovò in ginocchio, ma quasi tutte opere suggerite dalla commissione interministeriale presieduta da Giulio De Marchi, costituita nel 1967 proprio per studiare studio della sistemazione idraulica e della difesa del suolo, sono ancora sulla carta: dopo 50 anni è stato realizzato solo il bacino di laminazione di Caldogno, inaugurato nel 2016. Secondo lo studio “leggendo quegli atti ci si rende conto che i problemi di sicurezza riguardano tutti i fiumi veneti, compresi il Brenta e il Piovego a Padova. Solo l’Adige forse si salva, grazie alla galleria con una portata da 500 m³/s che lo collega al lago di Garda e che permette a Verona di stare in sicurezza. Eppure ogni volta entra in funzione ci sono polemiche perché creerebbe problemi ai pesci!”.

      A 70 anni insomma dal Polesine, a 55 dall'allagamento di Venezia e di Firenze e a 11 dall’alluvione del 2010, siamo insomma ancora lontani da capire l’importanza della tutela del territorio e ad agire di conseguenza. “L’acqua dà troppa confidenza, o meglio sono certi personaggi a prendersene troppa”, conclude sconsolato Luigi D’Alpaos.

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