SCIENZA E RICERCA

Basi lunari sostenibili con la stampa 3D e le urine degli astronauti

Non sappiamo ancora con precisione quando torneremo sulla Luna, la Nasa punta al 2024, ma di certo la nuova generazione di allunaggi sarà all'insegna della sostenibilità, anche perché il nostro satellite potrebbe diventare il punto di partenza per ulteriori esplorazioni spaziali e questo richiederebbe una permanenza degli astronauti decisamente più lunga di quanto non sia accaduto con le sei missioni del programma Apollo tra il 1969 e il 1972. Si tornerà insomma sulla Luna con l'obiettivo di stabilire una base per rimanerci e per questo motivo si sta lavorando per definire ogni dettaglio della futura "casa" che ospiterà gli astronauti, in vista di un eventuale prolungamento del viaggio in direzione Marte. 

L'idea di un approccio sostenibile per la costruzione di basi lunari mediante stampa 3D ha contraddistinto una collaborazione internazionale tra l'European Space Agency e diverse università europee, tra cui quella di Padova con il dipartimento di Geoscienze: i ricercatori hanno studiato tecniche di costruzione con materiali che non implicassero la necessità di un trasporto dalla Terra, considerando che il viaggio delle materie prime può arrivare a costare 20 mila euro al chilo, e hanno pensato ad alternative basate esclusivamente su quanto disponibile in loco. In quest'ottica il gruppo di scienziati, autori di uno studio che è stato recentemente pubblicato sul Journal of Cleaner Production, ha esplorato la possibilità di utilizzare l'urea, filtrata dall'urina degli astronauti, come fluidificante per aumentare la lavorabilità della regolite lunare e ottenere così un materiale idoneo alla stampa 3D. 

Abbiamo chiesto a Luca Valentini, ricercatore del dipartimento di Geoscienze dell'università di Padova, di illustrarci come è nato questo progetto e in che modo un materiale organico può sostituire i fluidificanti, ottenuti principalmente a partire da idrocarburi, che sono attualmente utilizzati nell’industria cementizia. 

L'intervista a Luca Valentini, ricercatore del dipartimento di Geoscienze dell'università di Padova, tra gli autori di uno studio sull'utilizzo dell'urea come fluidificante per la costruzione di basi lunari sostenibili. Servizio di Barbara Paknazar

"L’idea - spiega Luca Valentini, ricercatore del dipartimento di Geoscienze dell'università di Padova - è nata dall’esigenza di minimizzare il trasporto di merce dalla Terra alla Luna cercando quindi di sperimentare con materie prime che possano essere disponibili direttamente in loco. Per questo motivo si è pensato di sostituire la polvere di cemento Portland con la regolite che è il tipico suolo lunare, quello che noi tutti ricordiamo anche per la famosa impronta dello scarpone di Neil Armstrong durante l’allunaggio. Una volta che la regolite è stata miscelata con acqua abbiamo bisogno di un fluidificante per rendere l’impasto allo stato fresco lavorabile: questo progetto prevede la realizzazione di moduli lunari utilizzando una stampante 3D e quindi la miscela deve essere sufficientemente fluida per evitare di intasare le testine di stampa. Come fluidificante si è pensato di utilizzare l’urea che verrebbe ricavata a partire dalle urine degli stessi astronauti, tenendo presente che l’urea è il principale componente delle urine umane e, a partire da un processo di distillazione, è possibile separare l’urea dagli altri componenti". 

All'origine della collaborazione con l’Esa c'è un progetto Ariadna, meccanismo attraverso cui l’Esa collabora con il mondo accademico. "E' in questo contesto - prosegue Luca Valentini - che l’Agenzia spaziale europea ha avviato un rapporto con l’università di Østfold. Parallelamente, già a partire dal 2017, era stata impostata una collaborazione tra il dipartimento di Geoscienze e i colleghi norvegesi che hanno quindi deciso di coinvolgerci e di poter utilizzare il nostro laboratorio di microtomografia a raggi X: utilizziamo questa strumentazione su campioni preparati dal team dell'università di Østfold e mediante questa tecnica, che è analoga alla Tac ospedaliera, possiamo studiare e analizzare l’interno dei materiali, la loro microstruttura, senza un’azione invasiva sui campioni. La collaborazione con l’università di Østfold e con l’Esa ci ha recentemente portato alla pubblicazione di un articolo sul Journal of Cleaner Production, articolo che per la sua originalità è stato poi ripreso da molte testate internazionali, sia specializzate nell’ambito scientifico che generaliste".

Alla base dello studio "ci sono le conoscenze dell’interazione tra materia organica, come l’urea, e materia inorganica come le fasi cementizie. I comuni superfluidificanti attuali - approfondisce Luca Valentini -  sono a base di policarbossilati che sono dei derivati di idrocarburi. In precedenza, prima degli anni ’80 del secolo scorso, si utilizzavano dei ligninsolfonati, derivati della lignina. Di fatto però nell’antichità questa possibilità di interazione con la sostanza organica era già nota e ad esempio il cemento degli antichi romani veniva fluidificato con urine, sangue di animali, latte e altre materie organiche disponibili a basso costo".

Una conoscenza le cui origini hanno quindi qualche millennio di storia e che oggi può rivelarsi utile non solo per le sue applicazioni nelle missioni spaziali, ma anche in contesti molto più vicini a noi come quelli urbani. "Gli attuali polimeri superfluidificanti, che funzionano indubbiamente molto bene, hanno questa pecca dal punto di vista della sostenibilità ambientale di essere derivati da idrocarburi. Sulla base di questa conoscenza dell’interazione con la materia organica - conferma Valentini - è possibile effettuare delle sperimentazioni anche con additivi alternativi: è quello che stanno facendo alcuni ricercatori di università africane, considerando anche il fatto che questi polimeri superfluidificanti non sono disponibili ovunque nel mondo a livello di produzione e quindi, per minimizzare i costi ambientali dovuti al trasporto, si può sperimentare con tutta una serie di materiali di origine vegetale, possibilmente scarti. Uno di questi è la gomma di xantano che sembra avere fornito dei risultati abbastanza incoraggianti in termini di modifica delle proprietà reologiche della lavorabilità delle miscele leganti".

 

E in chiave sostenibilità è anche l'approccio con cui la Nasa immagina le future basi sulla Luna e su Marte: mattoni fatti di funghi "dormienti", in particolare di micelio, che potrebbero essere trasportati dalla Terra e fatti poi risvegliare una volta arrivati a destinazione. A quel punto, con l'aggiunta di acqua, li si farebbe crescere intorno a una struttura di base. Un progetto di mico-architettura ai cui prototipi sta lavorando il centro di ricerca Ames con il team guidato dalla biologa evoluzionista e astrobiologa Lynn Justine Rothschild.

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