SCIENZA E RICERCA

Biodegradabile. Limiti, vantaggi e falsi miti

Pur impegnandoci nella raccolta differenziata con le migliori intenzioni, sono molti gli errori che compiamo quando scegliamo, con sicurezza o titubanza, il contenitore migliore per ogni rifiuto che produciamo. Se un materiale è biodegradabile siamo sicuri che non danneggi in nessun modo l'ambiente? Biodegradabile vuol dire sempre compostabile? Siamo davvero sicuri di sapere cosa sono le bioplastiche?

C'è molta confusione e disinformazione tra i consumatori per quanto riguarda il significato del termine biodegradabile e le caratteristiche di questa tecnologia. Abbiamo chiesto perciò alla professoressa Maria Cristina Lavagnolo, docente di ingegneria sanitaria e ambientale all'università di Padova, di aiutarci a fare ordine tra le nostre conoscenze (talvolta più confuse di quanto crediamo) quando si parla di biodegradabile, compostaggio e bioplastica.

“La definizione di materiale biodegradabile, come suggerisce la parola, significa che questo viene degradato attraverso l'azione di microrganismi o batteri. Significa quindi che se viene lasciato nell'ambiente esterno, prima o poi le sue componenti principali vengono spezzettate in elementi chimici più semplici”, spiega la professoressa Lavagnolo.

“Resta però da vedere quali siano gli effetti di questo processo sull'ambiente. Il fatto che una sostanza sia biodegradabile significa che viene rimpicciolita la fibra fino a poter rientrare in un ciclo vitale. La sostanza organica, ad esempio, è basata sul carbonio organico, che può essere degradato a una forma più semplice come quella dell CO2, che va a finire nell'atmosfera, oppure in altre forme di sostanza organica più piccola. Anche alcune sostanze inorganiche, poi, possono essere biodegradate, come ad esempio l'azoto e il fosforo, che possono essere anche loro biodegradate e rientrare nel ciclo dell'ecosistema.

Quando però una sostanza biodegradabile viene lasciata nell'ambiente, questa può creare grossi problemi, soprattutto se la sua biodegradazione consuma ossigeno. Il latte, ad esempio, è una sostanza organica talmente concentrata che se viene versata in un fiume, viene aggredita dai batteri e dai microrganismi presenti nell'acqua. Questi sono aerobi, quindi consumano ossigeno e portano molto velocemente il fiume all'anossia, che può rivelarsi letale per tutti i pesci che popolano quella zona.

La biodegradazione può anche avvenire in mancanza di ossigeno, grazie ad alcuni batteri. Tant'è vero che i rifiuti organici possono essere portati in alcuni digestori anaerobici dove il processo di biodegradazione produce metano. Si tratta ovviamente di reattori che devono essere controllati e gestiti tecnicamente”.

Il biodegradabile, insomma, non può essere considerato la soluzione per tutto. Questa tecnologia, come molte altre, presenta dei vantaggi e degli svantaggi, e ha dei limiti intrinseci che non possono essere sottovalutati.

La biodegradabilità di una sostanza non è una caratteristica sempre positiva”, continua la professoressa Lavagnolo. “Tutto dipende da dove viene lasciata e in che concentrazione. Può rivelarsi vantaggiosa perché può essere resa di nuovo disponibile nell'ambiente, ma può accadere che, degradandosi, sottragga ossigeno all'ecosistema in cui viene portato.

Al contrario, se una sostanza non è biodegradabile è più adatta ad essere usata per produrre alcuni oggetti, come ad esempio gli imballaggi o i contenitori che devono proteggere il cibo dall'azione dei microrganismi. Esistono anche delle valvole cardiache fatte di particolari plastiche che, se fossero biodegradabili, non potrebbero funzionare; nel nostro corpo, infatti, ospitiamo migliaia e miliardi di batteri che le attaccherebbero, causando infezioni.

Un rifiuto non biodegradabile, però, nonostante non consumi ossigeno se lasciato nell'ambiente, non si degrada e rimane là, creando problemi non trascurabili. Come sappiamo, infatti, le centinaia di migliaia di rifiuti che ci sono nel mare formano coltri di plastica nel fondo marino e danneggiano gli ecosistemi”.

Le cose si complicano ulteriormente quando ci si trova a parlare di bioplastica.

“Tutti sono convinti che il suffisso bio voglia dire biodegradabile, ma la maggior parte delle volte non è così”, chiarisce la professoressa Lavagnolo. “Il termine bioplastica viene usato anche per descrivere un tipo di plastica biodegradabile, ma questo non è il suo unico significato. Bio, in alcuni casi, viene usato per indicare un tipo di plastica che è stata prodotta da fonti che non sono di origine fossile, e che non proviene cioè dal petrolio o dagli idrocarburi.

In realtà succede che noi chiamiamo con questo nome anche materiali come il policaprolattone (PLC) e il polibutirrato (PBAT) che sono biodegradabili, perché nella loro sintesi hanno dei legami che riescono a degradarsi nell'ambiente, ma che provengono dall'utilizzo di combustibili fossili.

Tra le bioplastiche ci sono anche alcuni materiali bio-based che provengono sì da fonti rinnovabili, ma non sono biodegradabili, come ad esempio il bio-based polyethylene protlestalato (PE-bio based).

Infine troviamo quella categoria di bioplastica che proviene da fonti rinnovabili e che è anche biodegradabile. Si tratta di materiali starch-based, che si basano cioè sugli amidi, e sono quelli ottenuti ad esempio dalla degradazione dei rifiuti solidi urbani organici (l'umido) tramite il processo di fermentazione acidogenica, che fa parte di quella fermentazione anaerobica biodegradabile di cui abbiamo detto poco fa”.

Per riassumere, usiamo il termine bioplastica per indicare tre tipi di materiali molto diversi:

  • biodegradabili non provenienti da fonti rinnovabili

  • non biodegradabili provenienti da fonti rinnovabili

  • biodegradabili provenienti da fonti rinnovabili

“Tutto questo è causa di grande confusione per i consumatori, perché nell'immaginario comune il termine bioplastica è spesso associato solo a quest'ultima categoria di materiali, che in realtà descrive solo uno dei tre tipi di bioplastica”, aggiunge la professoressa Lavagnolo.

Qual è il motivo di tanta confusione?

“Probabilmente si è voluto inizialmente giocare su questo termine per concentrare l'attenzione su un tipo di materiale eco-friendly che non richiedeva l'utilizzo di fonti di origine fossile per essere prodotto. Si voleva trovare un'etichetta invitante per qualcosa che energeticamente aveva un impatto inferiore. La confusione però deriva dal fatto che bios vuol dire vita, e quindi chiamare un materiale bioplastica solo perché arriva da una fonte rinnovabile ha creato una grande confusione.

Inoltre, altra confusione deriva dalla convinzione comune che tutta la bioplastica biodegradabile (ovvero quella appartenente alla prima e della terza categoria) venga mandata al compostaggio, e che quindi possa essere buttata nell'umido.
Questo non è vero. Ci sono alcuni tipi di bioplastica biodegradabile che non possono essere mandate al compostaggio, perché i nostri impianti non sono ancora attrezzati per poterle gestire. Ci sono quindi alcuni prodotti in bioplastica biodegradabile che sono compostabili, come i bicchieri o i piatti, e altri che non lo sono, come ad esempio le forchette e i coltelli.
Negli impianti di compostaggio, una delle prime procedure che vengono effettuate è un processo di vagliatura che ha lo scopo di eliminare i materiali che per errore vengono inseriti ad esempio nei sacchetti dell'umido”.

Ci troviamo quindi di fronte a un problema di informazione che diventa anche un problema educativo e di comportamento.

“Quando viene messo sul mercato un prodotto, non basta dire che è biodegradabile o che è fatto di bioplastica, ma dovrebbe esserci scritto come bisogna smaltirlo e se è compostabile. I sacchetti che contengono l'umido, ad esempio, devono portare la dicitura “biodegradabile compostabile”, e lo stesso vale per alcuni tipi di cialda del caffè. Dobbiamo ricordare infatti che la biodegradabilità in sé non è garanzia né del fatto che sia compostabile, né che non crei danni se lasciato nell'ambiente.

Inoltre, nel caso della bioplastica, bisognerebbe sapere di che tipo si tratta e come eventualmente è possibile recuperarla, perché, soprattutto per quanto riguarda quella biodegradabile, non si può riciclare, e quindi a volte non può essere buttata né nella plastica riciclabile, né nell'umido.

La comunità scientifica sta lavorando molto su questo punto per produrre i protocolli migliori sia per compostare la bioplastica biodegradabile, sia per capire se quelle che vengono definite biodegradabili possono essere compostate o meno, sia quali siano le condizioni del processo su cui bisognerebbe porre l'attenzione”, conclude la professoressa Lavagnolo.

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