CULTURA

Cesare Zavattini, poliedrico e prolifico autore in tutti i campi

Il 13 ottobre (quasi nessuno se ne è ricordato) sono trascorsi trent'anni dalla morte di uno dei più significativi autori della cultura del Novecento, Cesare Zavattini. Autore  prolifico e poliedrico come quasi nessuno, tanto che è impossibile definire o limitare i suoi campi di intervento: grande raccontatore di storie, diarista, drammaturgo, giornalista, sceneggiatore cinematografico (più di cento film a partire dal 1935, il suo sodalizio con Vittorio De Sica è il più noto), poeta (con una originale scoperta del dialetto emiliano, quello di Luzzara in particolare), polemista e agitatore in qualche modo “politico”, attore nell’unico film da lui diretto (La veritàaaa, del 1982). E poi teorico del cinema, uno dei padri nobili del neorealismo, forse il più accreditato.

Proprio questa molteplice apertura di interessi lo portò a variare il suo uso della parola e dell’immagine; si è parlato di “due anime” zavattiniane, perché accanto alla costante vocazione alla descrizione diretta, alla presa immediata sul reale coltivò anche la propensione ad aggiungere, a inventare, la “fame di realtà” si è unita la forza immaginifica (Ladri di biciclette e Umberto D ma anche Miracolo a Milano, per restare a De Sica) e il nucleo lirico. Più che una doppia anima si trattava di una vitalissima ambivalenza, di una originale interferenza.

Dovendo scegliere qualche elemento “forte” della sua magmatica poetica si possono, per brevità, tracciare almeno due assi portanti. Per prima sembra emergere un’idea complessa di realismo. Perché da un lato ha teorizzato, e in parte praticato o fatto praticare la tendenza – o l’utopia – a stare addosso radicalmente alla realtà, a pedinare i personaggi dal vivo, nella loro quotidianità, senza una gerarchia negli eventi fatti vedere,  fino quasi all’abolizione di ogni finzione o della nozione stessa di autore. Tutto è raccontabile, “il banale non esiste”. Ma questo non vuol dire passività di fronte al “grande palcoscenico dell’esperienza”; perché occorre scegliere,  e l’insistenza sulle cose e le persone finisce per manifestare le pieghe meno evidenti. Riprendere vuol dire anche rivelare, in cinema ma non solo. Non servono personaggi “eccezionali”, come vuole tra tradizione di racconto, basta lo sguardo sul “comune”, il microcosmo è portatore di significati ampi: il paese, l’evento qualsiasi, l’occasionale, il “pulviscolo dell’esperienza” sono produttori di significati allargati. Basta saper guardare.

Già, lo sguardo di Zavattini, la sua ampiezza e ricchezza, il suo aprirsi ad angolo retto sul mondo. “Vorrei essere un occhio, fondo, tutto occhio, che esclude da me nel campo visivo anche una sola ciglia, da confondermi con le cose stesse e non più: loro e io”, scriveva in Ipocrita 1943, uno dei suoi libri più conosciuti. Registrare vuol dire anche intervenire, per il cinema ma, ancora una volta, non solo. La visione contempla l’immediatezza e il gusto della scoperta, far parlare le cose e sentirsi coinvolti. Guardare può diventare un rito, “ho visto tante volte dei luzzaresi, che sembravano anime dure, arrivare al Po, sotto sera, in bicicletta, stare davanti all’acqua in silenzio cinque minuti, e poi tornarsene indietro, come fossero stati in chiesa”. Osservare è anche tirar fuori, il paesaggio sancisce un rapporto stretto tra cose e persone, tra cronaca e storia, tra dato oggettivo e grumo soggettivo, e memoria. L’occhio, quando si mette al lavoro, è sempre antico. E magari salta fuori l’ombra una della malinconia: “Ci si chiuse in un bozzolo da cui nel silenzio vidi uscire la crisalide della malinconia. Che ho sempre creduto fosse originaria del Po, altrove si trattasse di imitazioni”.

Queste poche note vorrebbero tradursi in un invito, quello di inoltrarsi nella splendida “confusione” zavattiniana (libri, film, e tutto il resto); nel diluvio di parole e di immagini che ci circonda è un modo privilegiato per far recuperare loro un senso.

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