Giulio Giorello se n’è andato, ieri. Aveva combattuto per due mesi contro la COVID-19 e aveva vinto. Il suo fisico, stremato, ha retto per un mese, durante il quale, il 12 giugno, ha avuto modo di sposare la sua compagna. Poi il cuore ha ceduto.
Il Bo Live intende ricordarlo a caldo, senza alcuna pretesa di rendere un ritratto completo di questa persona fuori dall’ordinario. Ne parleremo così come lo ha conosciuto il vostro cronista, che è stato onorato della sua più che trentennale amicizia. Per cui il lettore lo perdonerà se, di tanto in tanto, vi proporrà delle figure retoriche che potrebbero somigliare a iperboli. Ma, almeno nella sua percezione, non sono affatto amplificazioni della realtà alimentate da ammirazione e, appunto, amicizia.
Giulio Giorello è stato, da un punto di vista accademico, un docente di filosofia della scienza a Milano, la città in cui era nato il 14 maggio 1945: dodici giorni dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Era subentrato in cattedra a Ludovico Geymonat, uno dei pionieri della filosofia della scienza in Italia, un marxista non dogmatico che è stato definito un neoilluminista. Giorello era uno della nidiata di Geymonat, tra cui ricordiamo senza pretesa di completezza Enrico Bellone, Silvano Tagliagambe, Salvatore Veca, Evandro Agazzi, Fabio Minazzi e tanti altri che, con lui, hanno contribuito a creare un’oasi di cultura scientifica in un paese dominato dall’idealismo. Non solo quello crociano, ma anche un idealismo ascientifico e, talvolta, antiscientifico di matrice marxista (un ossimoro, per la verità).
Come Geymonat e su suggerimento del maestro, anche Giorello si laurea prima in filosofia poi in matematica. Rispondendo, entrambi, all’immagine transdisciplinare che aveva proposto Albert Einstein: «la filosofia senza la scienza è vuota; ma la scienza senza filosofia, ove anche fosse possibile, sarebbe arida».
È con questo bagaglio culturale che Giorello, come tutti i grandi allievi, si distacca dal maestro per percorrere una via propria originale. Che lo porta ad assomigliare a … Bertrand Russell. Sì, lo sappiamo, questa potrebbe sembrare un’iperbole davvero troppo ardita. Ma le somiglianze tra i due, Giorello e Russell, sono molte (premio Nobel per la letteratura a parte). Entrambi, il gallese nato a Trellech nel Monmouthshire e l’italiano nato a Milano, in Lombardia, hanno studiato la logica e la matematica, oltre che la filosofia. Ed entrambi sono stati nell’intimo filosofi con una marcatissima impronta logico-matematica. Una parentesi, che rende l’immagine: Giorello era un recensore entusiasta di Bruno De Finetti, il matematico padre della concezione soggettiva della probabilità: un approccio filosofico inedito alla matematica statistica.
Ma ritorniamo al paragone ardito. Come Bertrand Russell, è stato un grande intellettuale, un intellettuale a tutto tondo, capace di muoversi ben al di là dei confini disciplinari. Questa capacità è stata alimentata, in entrambi, da una curiosità insaziabile e da una cultura senza confini.
Entrambi hanno amato sopra ogni cosa la libertà. Un amore che ha caratterizzato l’antidogmatismo di Giulio Giorello, anche in ambito epistemologico. Non a caso lui, allievo di Geymonat che aveva avuto un fiero conflitto intellettuale con Karl Popper, aveva una certa simpatia per Paul Feyerabend, il teorico dell’anarchismo epistemologico che di Popper era stato tra gli allievi più brillanti. Giorello non aderiva al pensiero di Feyerabend, ma neppure lo considerava un’eresia. Proprio perché anche lui, Giorello, era un ribelle in filosofia. Un eretico.
L’amore della libertà ha portato Russell a presiedere il tribunale internazionale che ha preso il suo nome, oltre che a redigere, nel 1955, il famoso manifesto “Russell-Einstein”. Nulla di tutto questo è stato possibile per Giorello, naturalmente. Ma il filosofo italiano non si è mai tirato indietro nelle battaglie libertarie nel nostro paese. Già, perché – contrariamente a quanto affermato da molti – Giorello non era un liberale (come Popper), era un libertario. Con un radicalismo dolce eppure tenace. Con un ateismo dolce e insieme tenace.
Come Russell, anche Giorello aveva un’ironia insieme innata e coltivata. Nei suoi scritti come nelle sue conferenze come a tavola con gli amici, questa ironia nutrita dalla sua cultura, emergeva naturalmente, senza sforzo. Era un’ironia mai cercata, sempre spontanea.
Ancora qualche aspetto in comune. L’idea che non esistono le due culture, quella scientifica e quella umanistica. Men che meno esiste una divergenza tra di loro, come aveva sostenuto alla fine degli anni ’50, non senza preoccupazione, Charles P. Snow. E se anche esiste – questo il pensiero di Giulio Giorello – è una schisi innaturale, per usare la definizione di Primo Levi. Tutta la vita del filosofo Giorello è stata spesa alla luce di questa prospettiva.
Né esiste una gerarchia incolmabile tra la cultura cosiddetta di élite e la cultura popolare. Lui ha scritto tanto densi tomi sulla filosofia della scienza quanto divertenti, ma non meno profondi, libri sulla filosofia di Topolino e sul valore estetico e ludico e, quindi, culturale dei fumetti.
Era un accademico, Giorello, ma sapeva guardare ai contenuti oltre la forma. Come direttore della fortunatissima collana Scienza e idee di Raffaello Cortina ha pubblicato all’incirca 300 volumi. Tra i primissimi ha voluto che ci fosse anche un libro di un giornalista, Franco Prattico, redattore scientifico di La Repubblica. Franco non era un accademico, ma i contenuti dei suoi scritti erano quelli di un grande intellettuale. E Giorello non ha avuto la minima difficoltà a riconoscerlo.
Anche perché credeva nella funzione democratica – da neoilluminista, appunto – della comunicazione della scienza al grande pubblico dei non esperti. È anche per questo che scriveva incessantemente sui giornali (in primis Il Corriere della Sera), andava alla televisione, parlava alla radio, qualche volta anche da autore oltre che da ospite. Non appena aveva un minimo di tempo dagli impegni universitari (gli studenti lo hanno adorato) lo trovavi in ogni angolo d’Italia a tenere conferenze. Lo abbiamo incontrato infinite volte a Forlì, a Spoleto, a Trieste, a Foligno, a Pordenone. Avremmo dovuto incontrarci (Giorello e il vostro cronista) di nuovo a Macerata a metà maggio per parlare di un tema caro a entrambi: l’errore e il suo ruolo fisiologico anche nella scienza.
Lo abbiamo incontrato anno dopo anno per più di dieci anni a Padova, entrambi membri della giuria del Premio Galileo. Le sue recensioni dei libri da esaminare erano sempre illuminati, mai scontate.
Era una persona socievole. Cenare con lui discorrendo piacevolmente di tutto e tirare tardi sorseggiando una grappa era l’epilogo di ogni incontro. Sempre colto, mai saccente.
Era una persona libera e generosa, ha detto di lui il nostro direttore, Telmo Pievani. Era una persona libera e onesta, ha detto di lui Edoardo Boncinelli, suo collega come editorialista scientifico al Corriere.
Sì, era una persona libera e…
Ciao, Giulio.