SCIENZA E RICERCA
Il lato umano della scienza: la ricerca come attività sociale

“Se impari a conoscere la pratica scientifica e i suoi meccanismi, e capisci cosa vuol dire davvero, nella vita quotidiana, fare ricerca scientifica, diventa inevitabile vedere in tutti i risultati scientifici l’azione umana – decisioni, valori e giudizi – perché ti rendi conto del processo che porta a quei risultati”. Esplorare i processi umani e materiali della ricerca scientifica per comprenderne la natura profondamente sociale è uno degli obiettivi della ricerca di Sabina Leonelli, filosofa della scienza e docente di filosofia e storia della scienza e della tecnologia alla Technical University of Munich.
Leonelli collabora con gruppi di ricerca attivi in diversi ambiti scientifici, tra cui biologia sperimentale, bioinformatica, genetica e data science. In queste collaborazioni, applica gli strumenti della filosofia della scienza, della storia della scienza e dei Science and Technology Studies (STS) per analizzare la scienza non come un’entità astratta fatta di teorie e assunti logici e mirante a descrivere la realtà in modo oggettivo – una visione dell’impresa scientifica ancora oggi molto diffusa – ma come un’impresa profondamente influenzata dal contesto sociale ed economico in cui si esplica e dal contributo che gli scienziati, con le proprie prospettive e visioni del mondo, apportano alla costruzione della conoscenza scientifica.
Filosofia per la scienza
“Il mio metodo di indagine consiste nel lavorare a stretto contatto con gli scienziati per comprendere non solo il contenuto della ricerca, ma anche la metodologia adottata: mi interrogo su cosa voglia dire, concretamente, condurre un esperimento, applicare una determinata tecnica, utilizzare uno strumento”, spiega Sabina Leonelli a Il Bo Live, a margine di una conferenza tenuta al dipartimento di Biologia dell’università di Padova. “Dal punto di vista filosofico, mi interessa soprattutto il rapporto tra il processo scientifico – procedure, materiali e condizioni di lavoro – e i risultati epistemologici, ossia il tipo di conoscenza che deriva da queste pratiche e il modo in cui essa si intreccia con il lavoro concreto della ricerca, che è un’attività molto materiale e corporea”.
Per raggiungere questo obiettivo, Leonelli lavora a stretto contatto con gli scienziati naturali, con i quali sviluppa progetti di participatory observation, nei quali si avvale anche di strumenti sociologici ed etnografici per raccogliere informazioni sulle pratiche scientifiche in questione, e usa metodi di co-design partecipativo in cui, accanto al lavoro svolto insieme agli scienziati, si osservano e si studiano le loro pratiche scientifiche per poi costruire una riflessione condivisa sull’interazione tra le dimensioni teorica, tecnica e sociale della ricerca.
Sebbene questa interazione con un approccio umanistico e qualitativo possa sembrare poco fruttuosa per discipline basate sulla gestione di dati quantitativi, essa si rivela, nell’esperienza della filosofa, molto feconda anche per gli scienziati: “Alcuni ricercatori con cui abbiamo collaborato hanno scoperto un mondo di riflessione sulla scienza che, in realtà, aiuta la scienza stessa”.
Teoria e pratica scientifica
Tra gli aspetti che questa riflessione sul funzionamento della ricerca scientifica invita a mettere in discussione è il dare per scontato il significato di alcuni concetti fondamentali, come quello di “teoria”, un pilastro del metodo scientifico occidentale. In discipline come la biologia sperimentale, che è il campo su cui Leonelli conduce le proprie ricerche, spesso si ritiene che il compito dei ricercatori sia condurre esperimenti e produrre risultati, non elaborare teorie. Tuttavia, secondo Leonelli “è ancor più interessante far emergere i presupposti teorici e le loro implicazioni soprattutto nei contesti in cui vige un approccio apparentemente tutt’altro che teorico: questo, infatti, contiene assunzioni teoriche implicite che influiscono sul modo in cui si costruisce la pratica scientifica e sui risultati che si ottengono”.
Questa questione è ancora più evidente nella ricerca “incentrata sui dati”, un ambito di ricerca in rapida ascesa a cui Leonelli ha dedicato particolare attenzione negli ultimi anni, pubblicando sul tema anche un volume (Data-centric biology. A Philosophical Study, University of Chicago Press, 2016). Nell’analisi dei dati, si tende a ritenere che la conoscenza emerga direttamente dai dati, senza lasciare alla teoria alcun ruolo. In realtà, la filosofa della scienza sottolinea come questa sia un’assunzione errata: anche il modo in cui si classificano i dati e si formulano le domande di ricerca è “carico di teoria”, perché riflette le assunzioni teoriche implicite. “Inoltre – afferma la ricercatrice – non bisogna trascurare il fatto che la conoscenza scientifica non è statica, ma è in costante evoluzione, e il modo in cui viene sintetizzata e interpretata da diversi ricercatori ha una rilevanza nell’organizzazione e nell’interpretazione dei dati disponibili”.
Ingiustizia epistemica
Tutto questo ha implicazioni non solo sul tipo di conoscenza scientifica che possiamo ottenere, ma anche sulla dimensione sociale della ricerca. Il mancato riconoscimento del costante intreccio tra teoria e pratica, infatti, alimenta, nell’ambito della ricerca scientifica, forme diverse di ingiustizia epistemica. “In tutte le scienze ricche di dati esiste una gerarchia – di cui si parla poco, ma che è ampiamente riconosciuta”, afferma Leonelli. “Al vertice di questa piramide si colloca il ‘grande scienziato’, autore delle grandi scoperte, mentre alla base, al fondo della gerarchia, si trovano spesso i tecnici, gli scienziati e i curatori dei dati, considerati soltanto figure di supporto.
“Il mio lavoro di osservazione partecipativa ha mostrato chiaramente che costruire le architetture di dati che poi vengono usate dai ‘grandi scienziati' richiede enormi competenze, che non possono essere date per scontate”. Finché questa dimensione rimane sommersa, però, si verifica una situazione in cui “decisioni importanti e competenze notevoli nel mondo scientifico dipendono da persone che non hanno il potere, la visibilità, la retribuzione che si addicono a queste competenze”: una perfetta manifestazione di ingiustizia epistemica. Questo fenomeno è strutturale alla ricerca, e si manifesta tanto nelle grandi quanto nelle piccole istituzioni scientifiche. “Per di più”, aggiunge la studiosa, “questo si intreccia con disuguaglianze sociali più ampie, come le differenze di risorse tra Paesi più e meno industrializzati, il razzismo, le discriminazioni legate al genere e alla classe sociale”.
L’impatto di queste ingiustizie si ripercuote anche sulla qualità della ricerca: “Un esempio di come le ingiustizie sociali ed epistemiche influiscono sulla conoscenza scientifica si può rintracciare nella biomedicina: molte ricerche epidemiologiche, ad esempio, sono condotte sulle popolazioni più ricche, poiché spesso i dati sulle popolazioni più povere non sono disponibili, o gli scienziati che studiano queste realtà hanno accesso a strumenti meno aggiornati e quindi risultano meno credibili a livello internazionale, sebbene il lavoro che svolgono sia egualmente ineccepibile. Questo caso esemplifica come le discriminazioni agiscano anche all’interno del mondo scientifico, creando grandi asimmetrie, e quindi grandi ingiustizie”, limitando la capacità della scienza di produrre una conoscenza davvero universale ed equa. Non si tratta, quindi, di mettere in discussione l’attendibilità della conoscenza disponibile, ma piuttosto di riconoscere che, rinunciando ad affrontare questi problemi in modo sistematico, perdiamo molte opportunità di ampliare le nostre conoscenze.
Scienza è democrazia
Oggi il rischio di perdere queste opportunità è più alto che mai: “Viviamo, purtroppo, in un momento storico in cui l’attenzione alla diversità è sempre più ostracizzata dal mondo politico. Il governo di Trump è l’assoluta esemplificazione di questo”.
Ma il problema non riguarda soltanto la volontà di costruire una scienza più inclusiva per ragioni etiche. Secondo Leonelli, difendere una scienza aperta e inclusiva significa difendere la democrazia stessa. “Rispetto a quanto sta accadendo negli Stati Uniti – dove, ad esempio, gli scienziati che si occupano di clima non possono più usare il termine “clima” perché è diventato politicamente inaccettabile – molte associazioni scientifiche, istituzioni universitarie, centri di ricerca e persino alcuni governi stanno cercando di capire quale posizione prendere. Molti di noi stanno spingendo per una presa di posizione forte, perché quel che sta accadendo contraddice i principi stessi della ricerca scientifica: il rigetto del dogmatismo e il rifiuto dei sistemi politici in cui non c’è la libertà di porre domande ed esprimersi senza vincoli”.
Eppure, in questo quadro preoccupante, c’è un aspetto positivo: il fatto stesso che questi progressi vengano messi in discussione dimostra la loro rilevanza non solo per la comunità scientifica, ma per tutta la società. “Questa situazione potrebbe accrescere la consapevolezza della natura della ricerca scientifica, che è una costruzione sociale, e del suo ruolo all’interno della società che rende necessario supportarla dal punto di vista sociale, finanziario, morale e politico”, riflette Leonelli.
“Un altro potenziale risvolto positivo sarebbe la presa di coscienza che questa è una battaglia per la democrazia: è in gioco la possibilità di avere sistemi decisionali basati su evidenze scientifiche oggettive e credibili. Questo non è un tema che riguarda solo gli scienziati, ma tutti noi. Spero che, vedendo il più grande sistema scientifico mondiale crollare sotto i colpi dell’ostilità politica, le persone capiscano quanto questo stesso sistema sia fondamentale per le nostre vite quanto sia necessario proteggerlo”.