SOCIETÀ

Il Cilento? Un silenzio cantatore

Il silenzio è d’oro. Di più: “Non ha prezzo” come dice il tema della ventiduesima edizione del festival Luci della ribalta organizzato dal Comune di Padula.

Perché questo tema o, almeno il titolo, così emblematico? Perché, ce lo dicono gli stessi organizzatori, si è sentito il bisogno di organizzare “In contrappunto con la babele di parole retoriche ispirate alla pandemia, un ciclo di conferenze online e eventi live che declinino i grandi temi dell’ambiente naturale, della sostenibilità, del paesaggio antropico innovativo, dell’internet dei valori”. I relatori - sottoscritto a parte - e cioè Luca De Biase (“Il Parco è il messaggio”), Telmo Pievani (“La Terra non ha bisogno di noi”), Stefano Mancuso (“La specie migliore”), coordinati e stimolati (uno a settimana) dalla brava  Cristiana Colli, hanno risposto in pieno a questo obiettivo.

Senza far chiasso, ciascuno dal suo “remoto” come costringeva a fare la incombente pandemia. Senza far chiasso non solo nel rispetto del tema dell’evento, ma anche consapevoli, come diceva Kierkegaard 150 anni fa, (ce lo ha ricordato il teologo frate Raniero Cantalamessa) che “L'umanità è malata di chiasso” per cui bisognerebbe «indire un digiuno, ma un digiuno di parole; bisogna che qualcuno gridi, come fece un giorno Mosè: "Fa silenzio e ascolta, Israele"».

Un sacrosanto invito che farebbe tanto bene soprattutto oggi quando su tutta la Terra viviamo il fastidio di un’altra pandemia che si aggiunge al Covid-19 che è, appunto, quella del chiasso prodotto da parole rumorose e senza senso. Tanto che, quasi in aggiunta  a Kierkegaard, il filosofo Ludwig Wittgenstein sosteneva che “In arte è difficile dire qualcosa che sia altrettanto buono del non dire niente”. E mica solo in arte. E volendo continuare sul tema del silenzio, colgo il suggerimento di Gianni Zanarini nel suo “S Silenzio” (nella mia collana “La parola alle parole” edita da doppiavoce) il quale cita John Cage e il suo 4′33″. Si tratta di una composizione in tre movimenti composta nel 1952 per qualunque strumento musicale o ensemble. In essa  lo spartito dà istruzione all'esecutore di non suonare per tutta la durata del brano nei tre movimenti (tacet): il primo di 30 secondi, il secondo di 2 minuti e 23 secondi, il terzo di 1 minuto e 40 secondi; il totale dei secondi di silenzio, ossia 4 minuti e 33 secondi, è quello che dà il titolo all'opera. Nelle intenzioni di Cage la composizione dovrebbe consistere dei suoni emessi dall'ambiente in cui viene eseguita, dando una idea dell'importanza dell'ambiente stesso, sebbene sia generalmente percepita come quattro minuti e trentatré secondi di silenzio

Sono i leopardiani “sovrumani silenzi e profondissima quiete” che inducono alla riflessione, al ragionamento tali, “in questa immensità”, da far annegare il pensiero e giudicare che “il naufragar m'è dolce in questo mare”.

Tutto questo andrebbe bene in assoluto, ma il riferimento nel tema che sto trattando viene a proposito soprattutto perché la sede “virtuale” del festival di Padula è stata la certosa di San Lorenzo a Padula nella quale veramente il silenzio è d’oro e non ha prezzo.

Non va dimenticato, poi, che questo splendido contenitore e il comune al quale appartiene fa parte, a sua volta, di un più ampio contenitore che è il Cilento con il suo Parco nazionale. E il Cilento, il suo ambiente, il suo Parco, meritano una riflessione anche considerando l’impegno del Comune di Padula a candidarsi come capitale della cultura in Italia per il 2022. E aprono un tema che avrebbe bisogno di pagine e pagine per essere sviscerato nei suoi multiformi contenuti.

Ci provo pensando che se venisse da me uno studente e mi dicesse di voler fare una tesi sul Cilento gli indicherei innanzitutto una bibliografia  cioè una quantità di libri da leggere. 

Una quantità perché ce ne sono tanti di libri  da leggere sul Cilento. Ma a questo ipotetico studente semplificherei la vita suggerendogli solo due libri dalla cui lettura avrebbe abbondante materia per scegliere il tema da approfondire. Si tratta di: Cilento a cura di Giampiero Indelli, edito da Mondadori, con testi di Fulco Pratesi e Cilento edito da Liguori curato da Luisa Cavaliere, con bei testi di Domenico Rea, Franco Arminio e altri.

Due volumi la cui (ri)lettura mi ha ulteriormente convinto della loro importante utilità.  Tuttavia pur da queste preziose letture non mi riesce facilmente di trovare un tema da approfondire: mare, monti, costa, interno, flora, fauna…

Perché il Cilento è 200.000 stupendi ettari fra mare e monti.

Allora ricorro direttamente agli autori dai quali mi sono abbeverato.

Comincio da Franco Arminio che mi offre il testimone per considerazioni che conto di fare in conclusione quando scrive: “quando smetterò di andare in giro per l’Italia nell’illusione  di fare della paesologia qualcosa di più di una personale mania, sarà il caso di trovarmi una piccola casa in Cilento. So bene che non ci sono paradisi da nessuna parte, so bene che da un certo punto in poi la nostra vita la portiamo  in mano come una fiammella e che ogni spiffero può spegnerla. La vita a un certo punto si aggroviglia, il corpo non tiene, la società è diluita a dosi impercettibili, la politica non cerca il futuro e non lo trova. In queste condizioni non resta che andare dietro al paesaggio, dietro al Cilento”.

Il paesaggio, dunque.

È indescrivibile l’ambiente naturale di questa enorme area perché ci si perde nei boschi, e nei paesi che ne popolano le aree collinari e pedemontane; si scivola nelle acque dei fiumi, nelle cascatelle che dànno origine ai “capelli di venere” a Morigerati; nel mare senza uguali che ha progressivamente occupato l’area che centinaia di migliaia di anni fa era un’immensa prateria dove pascolavano i mammut.

È indescrivibile, ma in poche sintetiche battute mi aiuta Fulco Pratesi scrivendo che “quale che sia l’origine del nome, oggi il termine Cilento comprende tutta la grande e tormentata area che ha i suoi punti più elevati nei massicci degli Alburni, del Cervati, del Gelbison, del Bulgheria e la splendida costiera frastagliata che va da Agropoli a Policastro Bussentino”.

Può bastare? No, certamente. Ma più facilmente sì se si considerasse ciascuna di queste parole come link su cui cliccare per spaziare non l’immaginazione, ma la visione della realtà. E per capire perché in un ambiente di tale natura hanno trovato posto Paestum e Velia.

E perché questa meraviglia naturale ma anche ricca di prodotti della cultura materiale dagli “scavi” di Velia (la Elea di Parmenide, Zenone e Melisso)  alla Certosa di San Lorenzo a Padula doveva essere tutelata dagli esseri umani e per gli esseri umani. Per farlo nel 1995 fu istituito un Parco nazionale: il parco nazionale del Cilento, Vallo di Diano e Monti Alburni.

Il Parco. A me piace dire  che vorrei vivere su un pianeta senza chiavi e parchi naturali. Vale a dire senza ladri e massacratori della natura. Ma non è così. E mica solo da oggi.

Per cui non ci sarebbe  bisogno del Parco nazionale se, come dice Pievani, domattina non ci fossero più esseri umani.  E  ce lo ha dimostrato la fase uno del coronavirus quando il confinamento in casa di grandissima parte della popolazione ha fatto riscoprire cieli limpidi e aria respirabile; acque dolci e quelle marine “chiare fresche e dolci”; animali felici nei loro ambienti di vita.

Ma, in realtà,  soprattutto non ce ne sarebbe bisogno se gli esseri umani sensibili all’esistenza di un simile bene comune lo proteggessero in proprio per sé e per chi verrà dopo.

Dopo? Fortunatamente è anche un dopo che può vedere coinvolti non pochi degli attuali presenti. Dal momento che il Cilento è anche una terra nella quale la popolazione residente tende alla longevità.

Per rendersene conto sarebbe bastato un annuale controllo dell’andamento demografico ma ci ha pensato un gruppo di studiosi dell’Università di San Diego, in California,  arrivati in Cilento per una vacanza.

Li aveva invitati a fare un giro nel Cilento, Salvatore Di Somma, e qui hanno incontrato persone che Di Somma aveva visto a 60 anni di età ed erano ancora lì, 30 anni dopo, vitali e lucidissime. “Non portavano occhiali per leggere, c’era chi andava a pescare, altri trafficavano nei campi: da non credere ai propri occhi. Abbiamo capito che lì c’era qualcosa di unico. E poiché i colleghi di San Diego sono coinvolti da tempo in studi sulla longevità, ne abbiamo discusso e deciso di avviare insieme una indagine pilota su questi grandi vecchi”.

Con un camper quei ricercatori hanno visitato nove paesini sottoponendo gli anziani a un esame cardiologico completo, a indagine psicologica, parlando con i parenti per capire pure loro e l’ambiente.  Poi si sono ricordati che il Cilento vanta una speciale primogenitura in un altro campo perché è qui che il biologo americano Ancel Keys ebbe le prime intuizioni sui benefici, soprattutto per il cuore, di quella che sarebbe stata  chiamata la “dieta mediterranea”

Non solo. Perché va anche aggiunto che la longevità dei cilentani non sta nel loro DNA, ma dipende proprio da questo insieme di situazioni. Tanto è vero che Keys si traferì a Pioppi e vi morì a cento anni. 

Allora  se questo primato non riguarda solo la popolazione residente perché non si prova ad allargarne la potenzialità anche a quella che presente in pochi periodi dell’anno vi si potrebbe stabilire se vi trovasse le condizioni per farlo?

Anche il coronavirus  con il lavoro a domicilio ce lo ha consigliato.

Ma che cosa serve? E che cosa potrebbe anche frenare il progressivo spopolamento di questa come di gran parte delle aree interne della Campania e dell’intero Mezzogiorno?

Me lo chiedo da tempo. Mi chiedo, cioè, perché molti, potendolo fare senza compromettere il loro lavoro, hanno scelto di andarsene  nelle belle colline senesi o marchigiane e non anche, o invece, nelle non meno belle colline avellinesi, beneventane, cilentane? 

Perché, mi chiedo, chi, potendo scegliere, per  trascorrere anche lunghi periodi dell'anno lontano dai clamori e dai disservizi delle grandi città ha preferito quelle e non queste destinazioni? Soprattutto perché avendo la possibilità crescente di trasformare il proprio lavoro in telelavoro e quindi di renderlo ubiquitario, capace, cioè, di essere svolto in qualunque luogo purché si avesse a disposizione energia elettrica, linea telefonica e un computer, faceva quelle o avrebbe fatto quelle e non queste scelte?

La risposta è abbastanza semplice. Ed è che lì esistono le condizioni indispensabili non solo per vivere più tranquilli, ma per potervi anche lavorare. Non solo “sovrumani silenzi e profondissima quiete” offerti dall’ermo colle, ma anche altri modi di passare il tempo.

Mi chiedevo tutto questo e me lo chiedo ancora anche perché sono sconfortato pure dai dati dello spopolamento del Cilento, soprattutto interno, ogni volta che trascorro belle giornate a riva del suo splendido mare, magari scrivendo. Mi chiedo, cioè, perché tutto questo deve avvenire solo nella scarsa quarantina di giorni strappati ad una stagione potenzialmente tanto più lunga. Nè solo alla stagione estiva ci si può riferire nè solo al Cilento costiero che ha un interno non meno godibile. 

Purtroppo i guadagni abbastanza rapidi concentrati nella pur breve stagione estiva non impegnano a far durare quattro mesi una stagione che, invece, supera di poco i trenta giorni.  Tanto per parlar del mare. E se qualcuno volesse anche venirci a svernare e provare a diventare centenario? Lo potrebbe fare, ma a condizione di poter disporre dei servizi che lo sviluppo tecnologico ha reso pressocché indispensabili.

Se gli amministratori di questa risorsa che la natura (peraltro anche non poco maltrattata) gli ha dato in dono si rendessero conto che è scoraggiante doversene andare in giro con un telefonino alla ricerca del "campo" dal quale poter parlare o con un computer non facilmente  collegabile ad internet forse un po' meno gente se andrebbe e un po' di più ne verrebbe.

Franco Arminio, per esempio, del quale prima citavo l’idea di una casa nel Cilento

E il Parco in tutto questo? 

Il tema che mi fu assegnato per la mia partecipazione all’evento di cui dicevo è : "Che ambiente! Un parco da meritare”. La prima parte, con un punto esclamativo che già di per sé parla chiaro, è quella che ho sinteticamente descritto. Ma, poi, perché un “parco da meritare”?

Da meritare significherebbe, tanto per dare una risposta facile e rispondente alla domanda, che ci si comporti bene al suo interno.

Può sembrare un modo banale di affrontare questa parte del tema. Non lo è se ci fermiamo a riflettere sul fatto che il Parco è chiamato a proteggere la meravigliosa natura e biodiversità dei suoi 181.000 ettari, ma ne fanno anche parte la bellezza di  80 comuni per i quali e con i quali questa difesa deve essere realizzata e meritata. 

Insomma, nel suo silenzio - un “silenzio cantatore” si potrebbe dire parafrasando il titolo di una bella canzone napoletana di cent’anni fa-; nel suo silenzio, dicevo, il Cilento con le sue bellezze immateriali e materiali, tramite l’esistenza di un Parco nazionale, chiede di essere ben trattato. Che non significa imbalsamato, ma apprezzato, amato e rispettosamente meritato.

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