SOCIETÀ

Cinema, il dono di Camille al Centrafrica dimenticato

Cosa spinge una persona a rischiare la vita per raccontare una guerra? La psicologia degli inviati al fronte, giornalisti e fotografi che si mettono in gioco per testimoniare tragedie invisibili, è complessa e a volte indecifrabile. Leggendo ad esempio Ryszard Kapuściński narrare delle innumerevoli volte in cui era stato vicino alla fine, traspare un sentimento ambivalente. L’inviato di guerra non disprezza la vita, men che meno la propria, e cerca in tutti i modi di preservarla: ma è conscio della missione che ha scelto, riuscire a realizzare il proprio reportage, costi quel che costi. Una specie di fatalismo consapevole, o razionale monomania che al centro della psiche pone l’evento, e fa tendere anima e corpo verso di esso, con la spinta all’azione che anestetizza, senza cancellarla, l’idea della morte.

Camille Lepage era così. Giovanissima fotoreporter francese, aveva una passione per l’Africa, e desiderava raccontare per immagini le tragedie di cui pochi parlano. Dopo un primo lavoro in Sud Sudan, a 25 anni aveva scelto, nel 2013, di partire per la Repubblica Centrafricana: uno dei Paesi del continente piagati da conflitti senza fine, che in quei giorni viveva l’ennesima guerra civile seguita all’ascesa al potere dei Séléka, una coalizione musulmana che aveva scalzato il presidente Bozizé.

Camille, il film di Boris Lojkine premiato a Locarno e rivisto recentemente a My French Film Festival, parte dall’epilogo, il flash-forward sulla fine tragica di Camille, uccisa in un agguato nel 2014 mentre era al seguito di un gruppo di Anti-balaka (milizie cristiane in lotta con i Séléka). Ma è la sequenza successiva, quando la protagonista dialoga con un fotoreporter esperto, a dare una prima risposta al quesito iniziale, quello sulle motivazioni. Camille è fotogiornalista perché vuole documentare drammi che la colpiscono, ma al tempo stesso non lo è quando le viene chiesto di adeguarsi ai dettami del mestiere: selezionare l’oggetto del suo interesse, porre al centro lo stile, il modo di raccontare. Essere una professionista, non un’operatrice umanitaria. Un conflitto, quello tra professionismo e spinta interiore, che emerge da un’altra scena in cui la ragazza si trova a confronto con alcuni reporter. Camille desidera essere parte del Paese che racconta, conoscerne gli abitanti, diventare una di loro. Un’aspirazione che è giudicata dai colleghi con scetticismo e sarcasmo: il mestiere non consiste in un’impossibile identificazione con i popoli incontrati, le spiegano. È volare da un Paese all’altro per scattare, riprendere, e poi volare ancora altrove, senza velleità di comprenderne l’essenza. Bisogna raccontare schermati dall’obiettivo, senza identificarsi, perché si è comunque diversi, e perché senza distacco si rischia la pelle.

Ma Camille la pensa diversamente. Sceglie di partire per la Repubblica Centrafricana, se ne innamora, fa amicizia con un gruppo di studenti, dorme e mangia con loro. Inizia a vivere il conflitto dall’interno. Comprende che l’odio etnico e religioso è più forte di qualunque richiamo alla razionalità e al comune destino di “fratelli umani”, come definisce i suoi amici centrafricani di qualunque credo politico e religioso. Aiuta indifferentemente a fuggire giovani musulmani e cristiani. Ma è anche una fotografa, e impara sul campo le durissime regole del lavoro: assiste a massacri e distruzioni senza reagire, senza scappare inorridita, solo fotografando. Lojkine è abile a ricostruire, attraverso un’opera dal taglio fortemente documentaristico, un’atmosfera credibile. Girato realmente in Centrafrica, il film si avvale di dialoghi tesi, sequenze dal montaggio rapido e incisivo e un ottimo casting, che trova in Nina Meurisse l’interprete di Camille assolutamente perfetta: dolce ma decisa, attonita per una tragedia che le esplode di fronte ma non le appartiene, empatica, ma inflessibile nel compiere la sua missione.

Camille rappresenta un modo diverso di vivere una professione estrema, sempre in bilico tra dilemmi etici e personali: dopo aver ripreso un linciaggio, i suoi colleghi discutono sull’opportunità di pubblicare anche le foto più raccapriccianti. Rispetto della vittima o denuncia della realtà? Un dibattito che sembra quasi astratto, in mezzo a tanta ferocia. Leila, l’amica del cuore di Camille, pur essendo di padre musulmano viene uccisa dalla fazione islamica per aver aiutato un cristiano preso di mira. In questa totale assenza di senso e di valori, Camille rinuncia a giudicare. Assiste all’intervento francese nella Repubblica Centrafricana, lo documenta con successo, torna in Francia per prendere una pausa. Ma è sopraffatta dalla vacuità del quotidiano e dalla rapidità con cui, dopo l’intervento militare e l’apparente attenuazione del conflitto, i media passano ad occuparsi di altro. Senza ingaggio dal suo giornale, che le propone un altro teatro di guerra, torna in Centrafrica e, sfruttando l’amicizia con un miliziano delle truppe cristiane, si unisce alla sua squadra per fotografarne l’azione.

Se un difetto si può trovare in Camille, è di raccontare gli eventi secondo una sola prospettiva, quella del gruppo di studenti-militanti che la protagonista conosce all’inizio e che rimarranno il suo punto di riferimento nel conflitto. La fazione opposta, i Séléka, viene evocata solo attraverso le violenze che commette o subisce: l’assenza di suoi esponenti cui dare un volto (con la rapida eccezione del giovane studente musulmano) non ci permette di umanizzare entrambe le parti in guerra. Ma il senso di tutto, in fondo, è nel suo non senso, è nell’odio come motore e fine ultimo di qualunque conflitto tribale. Camille è fiction, ma dotata di troppi elementi di verità per non essere plausibile: le foto di Camille Lepage che compaiono a intervalli durante il film, alcuni video girati all'epoca da giornalisti sul posto, la presenza nel cast di un noto fotoreporter attivo in Centrafrica e amico di Camille (Michaël Zumstein) che interpreta se stesso.

Camille è stato girato nella Repubblica Centrafricana nel 2018, quattro anni dopo la morte della fotografa. Oggi Bangui, la capitale, è di nuovo in stato d’assedio, e il Paese è controllato da diverse fazioni in lotta tra loro. Gli assassini di Camille Lepage sono sconosciuti.

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