CULTURA

Cinema e sostenibilità: servono contenuti e spessore artistico

“Comunicare lo sviluppo sostenibile è una questione molto complessa. La difficoltà rispetto a questo tema è quella di elaborare film che abbiano uno spessore cinematografico che sia pari a quello del contenuto. Perché può succedere che ci siano lavori che trattano argomenti decisamente interessanti ma siano cinematograficamente molto poveri. Mentre lo sforzo dovrebbe sempre essere quello di ricercare un forte impatto artistico, una coerenza narrativa e una capacità di coinvolgere lo spettatore e di trovare un equilibrio tra il messaggio e il modo in cui viene raccontato, anche se si affrontano temi che normalmente chi li vede al telegiornale cambia canale.” È questo il pensiero del regista Marco Segato che, il 17 giugno in Cortile Antico a Palazzo del Bo, guiderà le riprese di PROSPERITÀ, l’ultima installazione di MAPS – Itinerari artistici per comprendere il futuro. 

“In generale - prosegue - la scelta dell’approccio e del modo di raccontare la sostenibilità penso sia una questione di posizione. Non credo ci sia una strada giusta o sbagliata, migliore o peggiore. Ci sono dei lavori che inevitabilmente sono dei pugni nello stomaco e hanno proprio come obiettivo quello di scioccare. Pensiamo ad esempio a Luca Mercalli, il suo scopo rispetto al cambiamento climatico è terrorizzare le persone per spingerle a prendere coscienza. Per altri invece è preferibile un approccio se vogliamo più morbido, grazie al quale la consapevolezza deve arrivare con un certo equilibrio, attraverso un percorso e non uno choc. Per me questi due punti di vista, che sono diametralmente opposti, ricadono sulla modalità di comunicazione." 

Porta come esempio la scelta di aver proiettato “The devil we know” al Detour Festival, di cui è direttore artistico. “È un film che racconta di come la DuPont abbia inquinato con i pfas una falda di una cittadina degli Stati Uniti e della class action fatta dalla popolazione locale che ha portato alla chiusura della fabbrica che, non a caso, ha spostato uno degli impianti proprio a Vicenza.  Ecco, quando si vedono queste immagini ti trovi di fronte ad un racconto che preferiresti non ascoltare ed è ovvio che questo tipo di cinema si rivolge ad una fascia di persone già sensibili. Però fa parte del gioco, perché il documentario ha l’obbligo morale di essere più duro e più radicale.” 

Ci sono cineasti che, del resto, affrontano i temi della sostenibilità anche nel cinema di fiction, che è una narrazione della realtà in cui ci si commuove e ci si diverte, costruisce personaggi a cui lo spettatore si affeziona e permette così di avvicinare un pubblico che magari non andrebbe a vedere un documentario sullo stesso tema. 

“Ne è un esempio il cinema di Miyakazi - riprende Marco Segato - un cinema di animazione fatto soprattutto per i bambini, che li vede spesso protagonisti di un rapporto con l’ambiente in perfetto equilibrio. In quel mondo, che risente sicuramente di un approccio giapponese un po’ più animista, i bambini si confrontano con degli elementi della natura che l’uomo adulto non riesce più a percepire. Come se i bambini, grazie alla loro innocenza, al fatto di non essere ancora entrati in età adulta e alla loro capacità di sognare, potessero ancora essere in sintonia con aspetti primordiali, a volte spirituali e inconsci della natura. Ecco, per me il cinema di Miyakazi è un cinema che affronta il rapporto con l’ambiente in maniera talmente profonda ed emotiva che vale tanti approfondimenti o documentari che mi trovo a vedere e che non hanno lo stesso impatto.”

Ed è con questa visione che, ad esempio, si sposa il suo film “La pelle dell’orso”. “Quando abbiamo girato il film, per certi versi poteva essere un po’ complicato dato che parla di un padre e di un figlio che vanno a caccia di un orso. Il bambino si trova ad affrontare un passato che non conosce, un padre distante che non lo ha cresciuto ed un orso che in qualche modo può anche rappresentare i fantasmi del diventare adulto. In realtà tutto quello che sta dietro è il rapporto con la natura, il confronto tra il ragazzino, che è una figura positiva e il mondo naturale selvatico, se si vuole ostile, con cui però è necessario confrontarsi e che va compreso. Ecco, nella costruzione del film, di alcuni elementi di equilibrio tra la sensibilità del giovane e questa natura anche violenta, non necessariamente benigna, che tuttavia esiste, l’idea viene più dal cinema di Miyakazi, piuttosto che da quell’approccio che racconta l’uomo contro l’ambiente, che può essere visto come nemico.” 

Per Marco Segato, senza voler necessariamente contrapporre i due generi, la scelta di comunicare un tema e di farlo in una maniera piuttosto che un’altra si lega anche allo strumento che si utilizza. Sono necessarie consapevolezza, lucidità e capacità di capire chi si vuole sia lo spettatore, quale sarà il mezzo che veicolerà il messaggio e a quale profondità si arriverà. 

“In generale - conclude il regista - i lavori migliori dal mio punto di vista sono quelli in cui anche lo spettatore riesce ad immedesimarsi nella ricerca che gli autori fanno e quindi non sono dogmatici ma lasciano aperte delle questioni e degli spazi vuoti che costringono a farsi delle domande, che ti chiamano dentro e non ti danno un punto di vista che puoi condividere a seconda della tua posizione politica o etica. Ecco, questo per me è un approccio che personalmente trovo molto interessante: penso che le persone debbano uscire con delle domande e non con delle risposte.” 

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