
Una rivolta. Orizzonti e confini del Nord-Est di Enrico Prevedello (Nottetempo, 2024) è un libro testimoniale.
Racconta la storia di un uomo, Luciano Franceschi, finito in carcere per aver sparato a un banchiere di Campodarsego che non gli voleva concedere un mutuo.
Racconta la storia di una follia: istituire un governo autonomo, guidato da una manciata di persone, che potesse rifarsi ai fasti di un tempo finito da oltre due secoli.
Racconta la storia di un luogo: Borgoricco, nel Veneto nebbioso e produttivo, punteggiato di case, fabbriche, allevamenti, attività a conduzione familiare su cui non scende mai la notte. Luoghi dove fatti come questi sono potuti accadere, e i protagonisti sono nati, cresciuti, hanno cercato il proprio senso.
Racconta, infine, la storia dell’io narrante, Enrico Prevedello, autore di questo libro – che non è un romanzo, non è un memoir, non è un saggio, non è autofiction – accidentalmente amico fraterno del figlio del protagonista e quindi spettatore vicino di questa storia. E poi, anni dopo, scrittore che cerca (e trova) la “giusta distanza”.
Luciano Franceschi era un piccolo imprenditore — con un caseificio, un allevamento di maiali, un piccolo alimentari di paese — sodale di quei “serenissimi” che nel 1997 conquistarono il campanile di San Marco con una specie di carro armato, issandovi la bandiera con il leone marciano.
Prevedello entra nel budello della sua anima, cioè di quella di un uomo che ha veramente creduto di potersi autodeterminare: “Luciano si era detto: mi sta bene che i vecchietti si facciano la strada fino alle poste di Camposampiero sotto il vento e la pioggia? No, allora faccio riaprire queste, a Borgoricco”.
Pennella un territorio all’apparenza lineare ma in realtà stratificato, nella sua solo apparente banalità: “Ci sono segni più evidenti, più condivisi, in alcuni casi esplicitati con cartelli e segnali, ma i limiti e i luoghi vivi li percepiamo con un senso che non sta negli occhi o sulla pelle”.
Infine, sfida la lingua e il genere letterario a seguirlo in mare aperto, dove i confini non hanno possibilità di esistere.
Lo abbiamo intervistato.
1. In “Una rivolta” racconti una storia di cronaca che ti ha sfiorato per vicinanza geografica e personale (il figlio del protagonista è un tuo amico) e in cui hai deciso di dire “io”. Come hai trovato il punto di vista e la giusta distanza per fare delle vicende pubbliche (ma anche private) di un uomo un romanzo letterario (sempre che tecnicamente di romanzo si tratti)? Per fare due nomi mi vengono in mente Emmanuel Carrère e Truman Capote…
Questi due autori sono stati, assieme a Vitaliano Trevisan, due riferimenti molto importanti per la scrittura del libro. Dal primo ho preso la faccia tosta di credere di avere un punto di vista interessante per raccontare una storia, ma anche la consapevolezza di non essere Carrère, e che quindi nessuno sarebbe stato interessato ad ascoltarla a priori. Da Capote ho preso l’ossessione per la possibilità di interrogare gli atti degli altri in cerca di qualcosa di universale, ma anche la consapevolezza di non non voler usare uno stile preciso e inarrestabile come il suo, sia perché non sarebbe stato utile a raccontare il mio libro, sia perché non ne sarei stato capace. Allora, per raccontare una storia mentre la stavo ancora capendo, ho deciso di comprenderla, nel senso di farla entrare in me e nello stesso movimento mettere me nella storia.
In superficie sembra che le scelte di una persona siano condizionate dal territorio in cui è vissuto, ma io credo che sia la persona a essere un’ambientazione, ovvero l’interferenza tra un tempo e un luogo, e che questa ambientazione faccia esperienza delle azioni che accadono in lei. Ho raccontato la storia di Luciano come lui fosse il territorio in cui è avvenuta; l’unico modo per farlo era diventare l’io narrativo che lo racconta mentre lo attraversa.
2. In questa storia la fanno da padrone il luogo e il tempo: il Veneto è forse sottorappresentato nella narrativa ed è singolare che qui compaia in modo quasi ossimorico rispetto a come il protagonista e i suoi “colleghi di speranze”, esponenti dell’autogoverno veneto, lo immaginassero. Tutt’altro che grandioso.
Faccio fatica a riconoscere il Veneto perché essendo le mie esperienze ambientate qui non vedo la differenza tra me e lui. Credo che si sbagli a raccontare un territorio per costruire un’identità, ovvero credo che si possa fare solo per ingannare, per inventare qualcuno che non esiste. Per me è vero solo il contrario: raccontando un’identità si costruisce un territorio. Però deve essere, questa identità, solo quello che è, ovvero una mera coincidenza di esperienze, una candelina conficcata in una torta a più strati che mentre brucia crede di essere assieme festa e festeggiata, uno spillo che tiene assieme strati di stoffa e ovatta e si crede di essere una trapunta. Tutto quello che viene messo sopra al territorio, ovvero alla persona che ne fa esperienza, è invenzione, manipolazione, sostituzione: così invece di fare esperienza delle proprie relazioni in un’ambientazione (e non, come credevo prima di scrivere il libro, in un corpo), si dovrebbe credere a un’idea di patria che essendo appunto un’idea, non esiste. Esiste solo l’esperienza di ciò con cui si entra in relazione. Tutto quello che esiste senza relazione è falso, è un prodotto e come tale è commerciabile, viene pubblicizzato, tassato e venduto. Che sia un berretto con una scritta sopra o il significato a cui allude quella scritta.
3. Com’è che ti sei calato da narratore dentro l’anima di Luciano Franceschi? Quanta follia c’era in un uomo concreto, gran lavoratore, padre di famiglia e che, concretamente, si credeva esponente di un governo coesistente con quello italiano?
La pratica che ho usato credo sia stata quella della comprensione, ovvero di far parte di ciò che racconto, come si è parte di ciò di cui si fa esperienza. La follia, se questa è la non aderenza tra una visione di mondo e il mondo come prodotto commerciale, è stata sempre presente nella vita di Luciano, ma nessuno l’avrebbe definita come tale fino a quando non ha preso la pistola ed è entrato in banca. Questa unica azione, questa coda di mostro direbbe Pirandello, andrebbe ricollegata al mostro stesso per comprenderla, ed è quello che ho fatto nel libro. Ora mi chiedo: il mostro che ha la coda con quella forma là, è Luciano? È la crisi del 2010? È il Veneto, o forse lo Stato che non ha saputo rispondere ai piccoli imprenditori in quella crisi, oppure forse le banche, o i venetisti, oppure la comunità che non è comunità perché carente di relazioni ma solo contemporaneità di corpi in un Comune? Forse il mostro alberga negli occhi di chi giudica che tutto questo sia mostruoso, forse la mostruosità in questo senso è contagiosa, e riconosco un mostro quando ne faccio esperienza, e a volte reagisco come il mostro che giudico mostruoso e lo vorrei far fuori ma lo arresto, lo lego, lo incarcero. In questo senso l’antidoto alla mostruosità è la contemplazione. Interessante come la contemplazione sia in contrasto con la giustizia.
4. Come ha agito il tempo, secondo te, sulla vicenda dei “serenissimi” e dell’autogoverno veneto? Come si è posata la polvere su queste vicende? Forse oggi, inebetiti dagli scroll, nessuno avrebbe nemmeno la fantasia per credere di poter sovvertire un mondo in quattro…
Tra le cose che mi affascinano di queste vicende c’è proprio questo agire per sovvertire il mondo.
Alle presentazioni del libro mi accorgo che i più giovani non hanno neanche sentito parlare dell’assalto al campanile di San Marco del 1997, quello col Tanko, il finto carro armato. Ci sono ancora venetisti, esistono autogoverni e stati veneti autodeterminati (che si basano su leggi italiane e internazionali riconosciute dall’Italia), ma non sono molto conosciuti. Dopotutto la Liga veneta è stata inglobata dalla Lega Nord, che offriva oltre all’identità culturale un nemico da odiare, e oggi gli algoritmi dei social sanno benissimo quanto l’emotività faccia stare incollato ai cellulari. Soprattutto quando si usa l’odio per creare una parte giusta da cui stare, un’identità migliore delle altre. La polarizzazione delle visioni politiche, l’aumento degli estremismi e la normalizzazione di razzismo, misogenia e omofobia mi fanno però sperare che si resti a scrollare sul cellulare invece che agire, perché un conto è scardinare un portone, salire sul campanile per far sventolare la bandiera di San Marco dichiarando rinata la Repubblica Serenissima, un altro è star bene solo se ci sono degli “altri” che vengono zittiti, deportati, lasciati (o fatti) morire.
Quello che mi affascina e mi atterrisce assieme è la consapevolezza che per cambiare il mondo bisogna distruggerlo e quindi portare sofferenza, ma anche che se non c’è cambiamento chi ha potere e ricchezza le rafforza, aumentando così le disuguaglianze e quindi la sofferenza di chi già soffre.
5. La copertina del libro forse non gli rende giustizia, perché ricorda un simbolo politico…
È una copertina viva: solo prima di leggere il libro ricorda un simbolo politico, dopo la lettura a guardarlo si vede un frammento della nostra esperienza.
“ Credo che sia la persona a essere un’ambientazione, ovvero l’interferenza tra un tempo e un luogo, e che questa ambientazione faccia esperienza delle azioni che accadono in lei Enrico Prevedello