CULTURA

C’è sempre una buona ragione per leggere Leopardi con un sorriso

Giacomo Leopardi fu un particolare umano sapiente di sesso biologico maschile (lo direbbe oggi anche la Corte Suprema del Regno Unito). L’espressione maschio alfa non era stata ancora catalogata nell’antropologia contemporanea (e in altre scienze meno esatte), poi è stata utilizzata per personalità, più o meno discutibili, anche molto precedenti e antiche. Tuttavia, sembrerebbe non proprio il caso che potesse essere additato così Leopardi: era piccolino e deforme, mezzo cieco e pieno di tic, poco piacione nei contesti sociali. Coltissimo e adorabile, invero: con quegli occhi celestiali e quei ricci ribelli, quella acuminata sincerità ironica e autoironica, quella memoria dolce e prodigiosa, quel continuo desiderio di lazzi affettuosi e introspezione solitaria. Capace di affascinare chiunque con l’eloquio e l’interlocuzione, con la sensibilità e la dolcezza. Come nella definizione alfa: sicuro in sé e nei propri mezzi, assertivo, coraggioso e polemico, tendente a una oggettiva leadership. Un fastidio, invero: inevitabilmente inviso a molti uomini per il conseguente indotto senso di inferiorità e poco attraente come attrazione sessuale per molte donne, tutte pare.

Una nuova breve biografia

Su Leopardi, su ogni anfratto delle parole e della vita, la bibliografia è sterminata. Difficile scoprire con leggiadria qualcosa di totalmente nuovo, tuttavia ci si può divertire ancora e recentemente è uscita, appunto, una breve biografia godibile e mirabile: Stefano Sandrelli, Il coraggio di ridere. Biografia leopardianamente ironica di Giacomo Leopardi, romanzo biografico, Mimesis, Sesto San Giovanni (Milano) 2025, pag. 126. Anche sul sorridere e il ridere, sul riso in Leopardi, le citazioni sono tante e le riflessioni scientifiche, biografiche storiche psicologiche culturali, sono innumerevoli. L’autore fa una scelta stimolante, allora: narra realtà e finzione solo di trenta giorni, scegliendo le occasioni per ripercorrere tratti di strada e tratti di memorie quando l’esimio recanatese riluttante era già lontano da Recanati da molti anni, era andato via nel 1825, vi era tornato molto malandato per 16 mesi a fine 1828, era tornato lontano definitivamente già dall’aprile 1830, prima a Firenze per oltre tre anni (con una puntata a Roma, dove era già stato per sei mesi nel 1824, e ancora), fino a settembre 1833, poi per oltre quattro anni a Napoli con l’amico Ranieri (quanto si è inutilmente scritto sul loro rapporto omosessuale!), fino alla triste sorridente morte, quel dì del giugno 1837.

Il viaggio verso Napoli

Accade, così, il 2 settembre 1833 che due amici, Giacomo Muccio Leopardi (1798 - 1837), piccolo e deforme, scuro di capelli, brillanti occhi celesti, e Antonio Totonno Ranieri (1806 - 1888), atletico e bello, biondo di capelli, sguardo profondo, partono da Firenze su una comoda carrozza affittata, tirata da tre cavalli. Sono diretti a Napoli, la strada è lunga, non hanno fretta, ci metteranno un mese. Si guardano intorno, chiacchierano, scherzano, meditano, sorridono e ridono. Non navigano certo nell’oro, non viaggiano nel lusso, ma non si fanno mancare niente: due piatti caldi, pane e vino, a colazione e a cena; pernottamenti nelle migliori locande, con biancheria di tela fine per i due letti nelle camere divise; soste anche con deviazioni, valutate pure al momento. Giacomo è scrittore e poeta di una certa fama, abbastanza malato (pure di nervi), ora febbricitante, soffre sempre di oftalmia (infiammazione a occhi e naso), ha una doppia gobba sulla colonna vertebrale. Antonio è giovane e bello, bugiardo e leale, sciupafemmine e spiantato: aspira a essere letterato, non lo sarà mai, anni dopo diventerà deputato del Regno d’Italia, poi pure senatore. 

Giacomo Leopardi è un nobile conte, il primo di 11 gravidanze materne e di sette figli (se consideriamo i nati), coltissimo e non credente: non avrà relazioni amorose condivise né figli propri, un “peccato” per tante e tutti. Nato il 29 giugno 1898, era figlio di Adelaide Antici (1778 - 1857) e di Monaldo (1776 - 1847), ebbe grande acume (invidiato e mal sopportato da molti, pertanto), dotato soprattutto di notevole tagliente ironia, con cui si è in parte “salvato”, prolungando l’esistenza con il filtro e la deformazione di qualsiasi emozione, noia illusione delusione educazione attrazione rabbia. Solo Antonio Ranieri sembra capirlo sempre in quel 1833, da quando si sono conosciuti (a Firenze sei anni prima), con reciproci malumori ma senza dubbi o ripensamenti. Lo si vede mentre viaggiano verso Levane in Valdarno; verso l’Umbria, Spoleto e la Cascata delle Marmore; verso il Lazio, Roma e gli zii; verso Napoli, infine, patria dell’amico, nella quale cambiano vari appartamenti sotto il Vesuvio, per un breve periodo anche a Torre del Greco.

Il bravo fisico e astronomo Stefano Sandrelli (Piombino, 1967) ha avuto l’ottima idea di narrare il viaggio da Firenze a Napoli del 35enne Giacomo e del 27enne Antonio, un dialogo intessuto dei loro “testi”, innanzitutto quelli del massimo poeta, pensatore e scrittore, notoriamente appassionato di scienza e poesia. I libri di Leopardi dovrebbero stare in ogni biblioteca privata e pubblica, pur minima; rileggerli e sfogliarli periodicamente dovrebbe mantenersi come saggia abitudine di ogni italiana e italiano. Il taglio e il titolo coincidono: “Chi ha il coraggio di ridere, è padrone degli altri, come chi ha il coraggio di morire” (1828); “chi ha coraggio di ridere, è padrone del mondo, poco altrimenti di chi è preparato a morire” (versione nei Pensieri); chiusa differente, leggermente e significativamente; resta il coraggio! L’interlocuzione dialogante fra i due è effervescente fiction, ben venga. I capitoli sono nove, i primi sette accompagnano il tragitto in carrozza e le soste residenziali, consentendo di narrare episodi dell’esistenza storica di Leopardi e la sintesi delle sue idee sul mondo sociale e sulla vita biologica. 

Il 2 settembre 1833 avrebbero chiacchierato in carrozza della lettera al padre appena scritta da Giacomo, dettandola ad Antonio, firmata comunque di persona, delle balle e bugie di cui era piena. I due squattrinati stanno fuggendo da Firenze, Leopardi non ne poteva più di quell’ambiente, hanno inventato la scusa che i medici avevano indicato l’aria di Napoli come rimedio ai suoi crescenti malanni. L’area partonepea è la patria di Ranieri, poi andatosene esule, lì potrebbero comunque saper districarsi e vivere meglio. Il 3 settembre si svegliano nel piccolo borgo medievale di Levane, in Valdarno, mattinata fresca e piacevole, decidono di far riposare ancora i cavalli e Giacomo racconta “La Befana a Recanati”, le molte frottole che con il fratello Carlo e la sorella Paolina (minori) si sono inventati quando erano ragazzini, per liberarsi dall’educazione dei genitori, entrambi oppressivi seppur per ragioni e con modalità differenti. Antonio dice che avrebbe proprio volute vedere la famosa Biblioteca del padre Monaldo (non lo fece mai; voi da quanto mancate?) e trova la solita risposta: l’amico aveva letto quasi tutti i libri, non pochi pure i fratelli, è vero, ma avevano invece voglia di scappare, di recitare saltare inventare. Fanno da contorno gli episodi dell’eclissi totale di sole dell’11 febbraio 1804 e dell’epifania del 1810.

Dalla Toscana all’Umbria

Fra il 4 e il 5 settembre Leopardi e Ranieri passano dalla Toscana (Cortona) all’Umbria (in direzione Perugia). Discutono di fantasmi, Antonio ride, Giacomo sogghigna: “La materia non è viva…E l’anima senza materia non esiste. È la materia che pensa e sente. Sembra strano pensarlo, così come è difficile pensare che l’elettricità sia una proprietà della materia. Eppure lo è. Ed è strano pensare che il suono non sia altro che una proprietà dell’aria… Tu, io: siamo dei corpi che pensano, che sentono. Strano pensarlo, ma ancora più strano pensare che esista qualcosa dentro di noi, l’anima, che ci abita…”. Leopardi si è proprio stancato degli amici istruiti e civili di Firenze che però si comportano scioccamente, vedono fantasmi che invece sono solo vasi di fiori. Ranieri riflette ad alta voce che, però, Leopardi a Firenze ha trovato pure sostegno e qualche amicizia sincera e, poi, sulle proprie di attrazioni materiali, nomina la bellissima amata attrice Maddalena, la testa piena della sua carne, la “fantasma” non gli interessava proprio. Chiosa il poeta: “Uno degli errori più grandi degli uomini è che pensano e si governano come se fossero meno fanciulli di quello che sono…; il progresso dello spiriro umano nell’ultimo secolo consiste nel riuscire ad ammettere la propria ignoranza”.

Nei giorni successivi di quel settembre 1833 i due si dirigono verso Spoleto, parlano di chimica e fisica (chi più chi meno), di Dante e Manzoni (uno più uno meno), Leopardi rievoca pure il periodo bello e sereno a Pisa, dal novembre 1827 al maggio 1828, soprattutto per il clima dolce, le persone gentili, la lingua semplice e aperta, le persone che lo ospitavano, talune personalità incontrate. E cita le Terese che lo colpirono, quella di Pisa e quella coetanea che osservava dalla finestra a Recanati, mentre lavorava al telaio e che ebbe vita breve. Arrivando alla Cascata delle Marmore, Giacomo racconta, inoltre, il periodo della sua irrisolta fuga da Recanati, la decisione presa nell’autunno 1818 e il tentativo dell’estate 1819 (ormai maggiorenne), la scelta crudele dello zio e del padre su come (e perché) impedirgliela. Parla anche di Didimi e del gioco della palla col bracciale, di Macerata e dei Monti Sibillini, di Lord Byron e di Giordani. Nel corso dei dialoghi emergono pure spesso notizie ed elementi sui tanti lavori retribuiti, perlopiù editoriali, svolti da Leopardi nelle varie città per contribuire a mantenersi lontano da Recanati, cosa e come avrebbe comunque voluto fare lui per un corrispettivo economico, chi comunque in vario modo lo sfruttò o lo aiutò.

La tappa romana

Il 12 settembre giungono a Roma, vi rimarranno a lungo. E ripercorriamo altre plausibili chiacchiere, rimembriamo gli altri viaggi a Milano e Bologna di Giacomo, seguiamo un poco Antonio da Marghetita, alcuni spettacoli della città, studi e studiosi riflettuti da Leopardi. L’ottavo capitolo ripercorre i quattro intensi atti di traslochi, incontri e cibi a Napoli, la più popolosa città italiana del tempo, la quarta in Europa dopo Parigi, Londra e San Pietroburgo. L’ultimo capitolo, infine, è datato 14 giugno 1837, quell giorno il concittadino poeta morì. Segue un appendice di una decina di pagine con “personaggi, interpreti, luoghi”. Segnalo che lo Sferisterio sta (ancora) a Macerata. L’indice dei nomi non servirebbe, si tratta di un riuscito efficace romanzo biografico, con il quale sorridere ancora una volta sul recanatese “gobbo dei Leopardi”. Allora: “Infinitamente ridiamo”.

Abbiamo spesso affrontato pensieri ed episodi di Giacomo Leopardi. anche da parte mia.

Definizioni sbagliate

Forse non era un maschio alfa, certo è sbagliato definire Leopardi come essere dotato contrassegnato di pessimismo nella vita cosciente: pessimismo storico, pessimismo cosmico, pessimismo eroico. Forse proprio no, forse mai, forse sono la definizione di “pessimismo” e una discriminante dicotomia ottimismo-pessimismo a essere sbagliate riguardo Leopardi e, probabilmente, riguardo gli umani. Gramsci viene spesso sintetizzato con la formula “ottimismo della volontà, pessimismo dell’intelligenza” che lui ogni tanto usava, avendola ripresa da un grande intellettuale francese. È efficace, pensate a molti di noi oggi, con quello che sta accadendo là per il mondo! Però, non funziona lo stesso come “formula”. Talora in qualche frequentazione, in qualche tempo e in qualche luogo dell’esistenza, ci capitano fasi di intelligenti ottimismi, talaltra di volontà pessimiste. Quasi sempre è un misto meticcio. Suggeriamo la volontà e l’intelligenza di ridere spesso di sé stessi, di ascoltare pervicacemente altri e altre con rispetto e interesse, di cercare sorridentemente le altrui bellezze e culture, di interloquire ghignando con il proprio ego narcisista e, inevitabilmente per i maschi, denso di patriarcato. Coraggio! Lo potè fare anche un gobbo alto un metro e mezzo, lo possono tranquillamente fare anche i maschi alfa.

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