SOCIETÀ

La città, la democrazia deliberativa e i cittadini come costruttori di comunità /1

Parte I – La nuova governance: confronto creativo

Quando il cambiamento è di tipo sistemico, la priorità non è più schierarsi dalla parte dei buoni contro i cattivi, ma mettere in discussione le speculari premesse implicite che le parti avverse danno per scontate. Il primo passo, oggi, come giustamente hanno sostenuto Bertuglia e Vaio (Complessità e modelli, 2011; Il fenomeno urbano e la complessità, 2019, Bollati Boringhieri, Torino) è avere chiara la differenza fra il funzionamento di un sistema semplice e quello di uno complesso, e rendersi conto che tutti i principali problemi del nostro tempo, come ha affermato il sociologo Ulrich Beck, sono connessi al fatto che i nostri corpi sono immersi nel XXI secolo, mentre le nostre menti e le nostre istituzioni sono rimaste al XIX. 

Quello che qui mi propongo è di riprendere i temi della parte quarta del volume di Bertuglia e Vaio del 2019, intitolata “Politica della città, partecipazione e autorganizzazione assistita”, per provare a redigere un riepilogo facilmente comprensibile e memorizzabile sul come e perché le principali caratteristiche dei sistemi di governance ancor oggi dominanti sono divenute del tutto disfunzionali a una civile convivenza e quali sono invece le caratteristiche che possiamo riconoscere nelle situazioni che già oggi dimostrano di funzionare in modo più efficace, equo e durevole.

In altre parole, la prospettiva che propongo è la seguente: la nostra vigente democrazia ha esaurito le sue capacità di sistematica semplificazione del mondo e di controllo delle sue parti disassemblate. “It must be upgraded”. Il compito, la missione, consiste nel fare della capacità di mutuo apprendimento il principale collante della società civile. 

Non conosco altro modo per farlo se non attraverso una continua comparazione fra i principi di base e di funzionamento di un sistema bene o male semplificabile (per brevità: “sistema semplice”) e uno non più semplificabile (“sistema complesso”). Mettere in primo piano i due modelli, il prima e il dopo, l’adesso e il futuro desiderabile, i due tipi ideali, permette di evidenziare che la transizione dall’uno all’altro passa attraverso l’accoglienza e messa in opera di due nuovi dispositivi, che sono il tema centrale di questo scritto. 

(1) Una nuova figura professionale, sempre più spesso indicata come “facilitatrice/tore”, col ruolo di parte terza e garante delle nuove regole. Praticamente delle traghettatrici e dei nocchieri del passaggio alla riva della complessità. Una figura che svolge per l’instaurazione della governance del XXI secolo un ruolo analogo a quello ricoperto dai burocrati descritti da Max Weber nel passaggio dall’amministrazione patrimoniale a quella dello stato moderno. 

(2) L’adozione sistematica di modalità di incontro e decisionali basate sul “confronto creativo” al posto di quelle “parlamentari”, divenute tipiche con la modernità. Più precisamente, ogniqualvolta sia necessario, in tutte le contingenze riconosciute come complesse, la sequenza “diritto di parola, contraddittorio, voto di maggioranza” va sostituita con la sequenza “diritto di essere ascoltati, moltiplicazione delle opzioni, co-progettazione creativa”. Le dinamiche di gruppo nei due casi sono opposte: in uno l’emergere di divergenze viene visto come occasione di schieramento, nell’altro come risorsa conoscitiva e premessa per l’elaborazione di diagnosi e progetti più adatti a navigare nella complessità.

La discussione è organizzata in due parti. Parte I – «La nuova governance: confronto creativo», che si sviluppa attorno a quattro voci: chi prende le decisioni, decisione e implementazione, il significato di “collaborazione”, il significato di “competenza professionale”. Parte II – «Ascolto attivo, il nuovo frattale», che mette a fuoco i luoghi comuni che ostacolano il passaggio da una comunicazione unidirezionale e gerarchica a una circolare, fra pari, dialogica, e il ruolo dell'ascolto attivo e della facilitatrice/tore nella messa in opera dei dispositivi tipici di una democrazia aggiornata.

In entrambe le Parti, gli esempi sono intesi a indurre le lettrici e i lettori ad aggiungerne altri e a discuterne.

 

Chi prende le decisioni

La nostra società è ormai un sistema molto complesso, ma i rituali decisionali, le gerarchie e le istituzioni sono rimasti quelle di una volta, adatti a dei sistemi più stabili e meno interdipendenti. In un sistema semplice, quando chi si trova ai vertici della gerarchia ordina di mettere in atto la decisione A, l’apparato esecutivo produce A o qualcosa di molto simile ad A. In un sistema complesso, quando chi sta ai vertici decide A, l’esito può essere B, C o F, sicuramente non sarà A. In altre parole “complesso” è un sistema che nessuno dei soggetti che ne fanno parte, per quanto potente, è in grado di governare, di orientare in un senso voluto. Dove va, quali sviluppi segue un sistema complesso dipende dalla capacità di tutti i soggetti che lo compongono di collaborare trasformando le proprie differenze in risorse conoscitive. Altrimenti il sistema impazzisce e coloro che lo compongono sono destinati alla frustrazione, a rimanere prigionieri di atteggiamenti di vuota denuncia e vittimismo. È una sindrome lancinante, uno stato di impotenza che tutti avvertiamo e abbiamo sotto gli occhi. Per trovare una via di uscita bisogna capire meglio perché non funzionano più né le tradizionali decisioni top-down né le loro forme di contestazione. I motivi sono parecchi. E siccome niente rende comprensibile la complessità quanto una buona storia, ne racconto subito una.

Sistema semplice. Cavour a metà del XIX secolo, si mette in testa di realizzare una linea di alta velocità fra il Piemonte e la Savoia, non ancora Francia. Convoca il parlamento subalpino, mette al lavoro un gruppo di illustri ingegneri e i lavori del traforo del Frejus, lungo 12 km, vengono iniziati nell’agosto del 1857 e completati nel settembre 1871. Anche allora ci sono state resistenze e critiche, incidenti ed errori, correzioni e innovazioni. Ma, pur con delle tecnologie assolutamente rudimentali rispetto a quelle odierne, in quindici anni il progetto è stato eseguito. Cavour ha ordinato “A” e il risultato è stato “A”.

Sistema complesso. Il governo italiano attorno al 2000 vuole realizzare un’aggiornata linea di alta velocità fra il Piemonte e la Francia. Il parlamento discute discute discute finché nel 2010 decide: si fa. Un gruppo di illustri ingegneri si mettono al lavoro e il progetto è presto pronto. Ma quel che succede poi è che gruppi sempre più numerosi di abitanti dei territori implicati (Val di Susa) denunciano allarmati i danni di tipo ambientalistico, economico e sociale che la realizzazione di questo progetto provocherebbe. Dopo cinque anni di manifestazioni di protesta, episodi di guerriglia urbana e processi giudiziari, il governo in carica decide finalmente di istituire un Osservatorio per coinvolgere le istituzioni locali e le rappresentanze della popolazione in un lavoro di co-progettazione; ma il clima è ormai profondamente esacerbato e solo una parte di costoro vi ha partecipato, arrivando comunque a un nuovo progetto, profondamente modificato e certamente più adeguato alle esigenze del territorio. Trascorsi 12 anni, e nonostante le attrezzature da guerre stellari a disposizione, i lavori sono ai primi passi, sotto la protezione dell’esercito. Il governo italiano ha ordinato “A” e il risultato è stato un coacervo di lettere impazzite.

La classe politica italiana, divisa anch’essa fra No-TAV e Sì-TAV, non si era accorta che nel frattempo la società era divenuta complessa e che altre parti del sistema, se non ascoltate, avrebbero reagito in consonanza con le premesse implicite loro proprie, con alta probabilità contrastanti e antagoniste. Il governo francese questo lo ha capito da tempo e infatti ha istituito fin dal 1995 il Débat Public, una procedura di ascolto dei territori interessati, gestita da una Autorità Terza, garante della inclusività e trasparenza del processo partecipativo.

Il problema dei nostri politici, e più in generale della nostra classe dirigente, è che i migliori di loro rimpiangono Cavour e di fronte ai fallimenti vanno alla ricerca dei colpevoli, di un altro leader o di un altro partito. Non sembra passare loro per la mente che il ricorso a procedure e metodologie per coinvolgere i cittadini nelle diagnosi e nelle scelte, consentirebbe sia di avere una visione più ampia e adeguata della realtà che una cittadinanza più informata, consapevole e responsabile.

Un illuminante confronto fra casi di buona e cattiva governance in tema di politiche metropolitane è quello fra i due processi decisionali sulla costruzione di un nuovo stadio, partiti contemporaneamente nel 2013 rispettivamente a Roma e Parigi (si veda: Casillo I. e Sclavi M., Una Città n. 240,  luglio 2017). In Francia, dove si è fatto ricorso al Débat Public, il processo è durato un anno. La decisione definitiva, presa con il consenso di tutte le parti in causa, è stata di non fare quello stadio e di riqualificarne un altro già esistente. In Italia, il primo “progetto definitivo” (poi rimesso in discussione) è stato consegnato al commissario di Roma Capitale e alla Regione Lazio a fine maggio 2016 ed è composto di una relazione di 7041 pagine, corredata da 567 allegati e 50.000 pagine di relazioni specialistiche. Subito dopo il sindaco in carica di cognome Marino è stato defenestrato dal suo stesso partito, e la nuova sindaca, a quel punto di un altro partito, ha tagliato grattacieli, aggiunto palazzine e rimesso in discussione tutto. L’unica cosa sicura, a sei anni di distanza, è un pacchetto di rinvii a giudizio.

2. Decisione e implementazione

Per operare in modo intelligente in un sistema complesso, differenziato, interdipendente, turbolento, è necessario un metodo sperimentale, cioè aspettarsi che quello che si sta facendo conterrà degli errori e richiederà delle modifiche. Grazie agli errori e ai tentativi di correzione si riesce a risalire alle premesse implicite che stanno alla base dei comportamenti ed eventualmente a modificare anche quelle.

Il sociologo Michel Crozier, che dopo Max Weber è probabilmente lo studioso che ha più contribuito all’analisi del fenomeno burocratico, ha sostenuto già negli anni ’70 e ’80, due aspetti che qui ci interessano. Primo: che, essendo la burocrazia un’organizzazione incapace di autocorrezione, l’unico modo per mettere in discussione il suo modo di operare è attraverso delle drammatiche crisi. Si tratta non di riformare, ma di re-inventare. Secondo: che gran parte dei progetti sfornati dall’ENA (la prestigiosa scuola di PA francese) pur tecnicamente ineccepibili, rimanevano sulla carta per mancanza di capacità di recepire il punto di vista di tutti i soggetti interessati nei territori interessati.

Le esperienze di democrazia partecipativa in atto negli ultimi anni nel mondo ci fanno toccare con mano che un buon governo del territorio (efficace, equo e saggio) è possibile, e che esistono i metodi e le competenze per mettere in atto un’altra idea di pubblica amministrazione, inclusiva invece che escludente, dialogica invece che labirintica, amica della concretezza invece che astratta e soporifera. Si tratta di esperienze che mostrano con chiarezza, sia per i loro successi sia per gli ostacoli che incontrano, che senza la collaborazione fra abitanti interessati alle sorti dei loro territori e le varie amministrazioni dello Stato non si va da nessuna parte, e che tale collaborazione è possibile unicamente a patto di una drastica sburocratizzazione. Non si tratta di passare dal pubblico al privato, ma di rinvigorire la società civile, ridando spazio e forza a forme di democrazia più articolata e meno partitocratica. Non si tratta di “riformare” la burocrazia, si tratta di sbarazzarsene. La figura 2 illustra questo cambiamento e gli esempi che porto per sostanziarlo (si possono ritrovare tutti descritti anche sui vari siti web).

In un sistema complesso l’intero processo di diagnosi, attualmente inteso come individuazione della miglior soluzione che andrà poi implementata, va ripensato e sostituito con il compito di individuare “le migliori idee (o progetti, o design) da mettere alla prova”. Il processo decisionale è così costretto ad abbandonare il terreno della speculazione, delle alternative astratte, per incorporare al proprio interno i criteri e principi di una buona implementazione e, viceversa, quest’ultima diventa responsabile di un continuo flusso di decisioni con valenza politica. Tutti i soggetti implicati in questa filiera progettuale (volendo, dal Presidente della Repubblica allo sterratore) diventano, per la durata del processo, parte di un’unica “comunità indagante”.

Assumere che la realizzazione di un’idea progettuale possa (e in molti casi debba) essere intesa come “sperimentazione”, cioè come momento di verifica e messa a punto dell’idea stessa, è l’opposto dell’impianto giuridico-burocratico vigente, tipicamente irresponsabile rispetto agli esiti; e se, da un lato, apre la strada alla tanto invocata “progettazione adattiva” nelle imprese pubbliche e agenzie governative, dall’altro è la premessa per un dialogo fra cittadini e PA, di solito impedito dal fatto che gli abitanti vedono le politiche dal lato delle conseguenze nelle loro vite, mentre chi è al potere le vede dal lato di una retorica decisionale, che solo a posteriori farà i conti con la sua messa in opera. Questa importante e di solito trascurata distonia è ben documentata nel libro di Giuseppe Gangemi, Innovazione Democratica e Cittadinanza Attiva (2018), che descrive puntualmente, in modo quasi diaristico, l’emergere di questi contrasti e incomprensioni nella prima giunta Vendola alla Regione Puglia (2005-2012), durante la quale l’autore è stato consulente dell’Assessore alla Trasparenza e Cittadinanza Attiva, Guglielmo Minervini.

In Finlandia decenni di “sperimentazione della sperimentazione” in una pluralità di campi, dalla riforma del sistema scolastico a quella dei trasporti, dalla diffusione delle energie alternative al sistema della governance locale, hanno prodotto esiti giudicati talmente positivi, che nel 2015 il primo ministro ha affidato al Dipartimento di Design dell’Università Aalto e a due think tanks, Demos Helsinski e Avanto Helsinski, il compito di trasformare questo approccio in un protocollo abbastanza semplice da poter essere integrato nelle normali procedure decisionali e di implementazione a tutti i livelli.

In Italia, su questo terreno, della maggiore o minore contiguità e interrelazione fra decisione e implementazione, possiamo esibire esempi di casi estremi. Quello negativo e più preoccupante è l’assoluto disinteresse per non dire spregio per i modi, tempi, esiti dell’implementazione delle leggi da parte dei membri del parlamento italiano. Ne sono dimostrazione l’altissima percentuale di leggi che rimangono prive di regolamenti attuativi o dotate di regolamenti incomprensibili. Questo aspetto che dovrebbe suscitare vergogna, allarme, dimissioni, non occupa spazio nell’opinione pubblica. Tutta l’attenzione è sui contenuti delle leggi, su chi ha proposto cosa, ma cosa succede dopo pare interessare unicamente quando ci si trova di fronte a una catastrofe. Per il resto, sembra che la frase “non è di nostra competenza” assolva i politici al pari dei burocrati.

Un caso a rovescio, in cui la progettazione è scaturita dall’implementazione, è quello verificatosi nella ricostruzione post-terremoto in Friuli a metà degli anni ’70. In questo caso, la scelta vincente è stata di rifiutare di partire da una legge ad hoc o da un piano, per mettere invece il cantiere al centro: una pluralità di cantieri diretti dai gruppi di vicinato con l’assistenza di architetti di fiducia. Non c’è migliore garanzia di trasparenza e di efficienza dei lavori di un gruppo di vicinato, impegnato a usare i finanziamenti pubblici per ricostruire le proprie case e il paesaggio urbano in cui riconosce la propria storia e identità. Ma appunto, è rimasto un unicum, mai più ripreso neppure nei terremoti seguenti. 

Un cambiamento importante e duraturo su questo tema si è invece verificato all’inizio degli anni ’90, con l’elezione diretta dei sindaci, i quali assumono agli occhi dei cittadini il ruolo di manager di una giunta della cui efficacia operativa sono garanti personalmente, senza la mediazione dei partiti. Questo ha aperto degli interessanti contrasti e attriti sia con una PA procedurale e settorializzata sia con la pretesa dei partiti di essere gli esclusivi portavoce della società civile. Di fronte a degli elettori che vogliono avere direttamente voce in capitolo sulle politiche che li toccano da vicino, le amministrazioni locali in modo sempre più deciso stanno aprendo anche in Italia il capitolo della democrazia partecipativa e deliberativa. Possiamo ricordare, a questo proposito, la legge sulla partecipazione – stile Débat Public – della regione Toscana del 2007, i “patti collaborativi” inventati da Labsus e approvati in pochi anni da più di 200 comuni, e parecchie altre esperienze che ci permettono di affermare che un terremoto politico, anche se di pochi gradi, era certamente in corso già prima dell’attuale pandemia.

3. “Collaborazione”

In una recente conferenza ad Amsterdam su The State of Conflict, ovvero su come appaiono le nostre società e istituzioni se le guardiamo attraverso la lenti dei conflitti che le attraversano, tutti gli interventi, con diverse angolazioni, hanno illustrato una tesi che condivido: non esiste soluzione dei conflitti piccoli o grandi nel mondo di oggi, se non vi è un’idea condivisa di futuro.

Uno dei relatori, Maarten Hajer, che insegna “Futuri sperimentali” all’Università di Utrecht, alla domanda: «How can we give people a new appetite for the future?» («Come possiamo invogliare la gente a pensare al futuro?») ha risposto con un duplice suggerimento. Il primo è una formula elaborata nel secolo scorso dai teorici della ricerca-azione: «Non cambierai mai qualcosa combattendo la realtà esistente. Per cambiare, costruisci un modello nuovo che renda quella realtà obsoleta». Il secondo suggerimento può essere sintetizzato in un’altra domanda: «Why talking about the future when you can visit it instead?» («Perché limitarsi a parlare del futuro, quando possiamo visitarlo?») Entrambi questi suggerimenti nascono dalla comprensione che non si può passare da un sistema semplice a uno complesso, se prima non si esce dal sistema semplice.

Quindi, per capire come dovrebbe cambiare il nostro sistema di potere e istituzionale, nonché i nostri mondi vitali, al fine di trovarci a nostro agio in una società complessa, dobbiamo prendere molto sul serio e imparare da specifiche e concrete situazioni in cui questo avviene. Queste esperienze, che non solo esistono, ma sono ormai anche molto numerose, di solito vengono trattate come “eccezioni che confermano la regola” e trattate con superficialità, sostanzialmente ignorate. 

Qui di seguito ne riporto tre che, pur diverse fra loro e nate in ambienti e tempi diversi, esibiscono un impianto di base molto simile, che potremmo considerare una sorta di “archetipo” alla base di ogni governance efficace in una situazione complessa.

La prima sono gli esperimenti attuati da James Fishkin, della Stanford University, che ha messo a confronto gli esiti di un normale sondaggio di opinione con quelli di un diverso sondaggio che ha chiamato “deliberativo”. I normali sondaggi di opinione si presentano all’opinione pubblica come un metodo per evincere “cosa pensa la gente”, “quali sono le opinioni prevalenti in una collettività” su un certo tema. La premessa è che la società, la collettività, è formata da tanti individui – gli abitanti, i cittadini – ognuno separato dall’altro, chiamati a esprimersi su un certo tema. Al termine si contano le posizioni: il 36% si è espresso così, il 12% così, ecc., e su queste basi si discute su “quali sono i pareri della gente” su quel tema. 

Fishkin col suo “sondaggio deliberativo” ha dimostrato che chiedere alla gente “cosa pensa”, al di fuori di un contesto dialogico, è un inganno epistemologico: quando tu domandi alla gente cosa preferisce fra A, B o C, il risultato non è “cosa la gente pensa”, ma “come risponde alla tua domanda”. Per pensare si deve, come minimo, poter mettere in discussione la domanda. L’esperimento messo in atto da Fishkin è consistito nel ricontattare le persone che avevano costituito il campione di precedenti sondaggi e proporre loro di incontrarsi fisicamente per un paio di giorni, per informarsi e discutere assieme su quel tema. Queste persone hanno dunque occasione di incontrarsi e di avere a disposizione tutte le informazioni che ritengono necessarie per farsi un’idea del problema: possono leggere, discutere tra loro, ascoltare esperti. L’esperimento ha dimostrato scientificamente che, se al termine dei due giorni si rifà a ognuno la domanda iniziale, in media il 70% dei partecipanti ha cambiato opinione. La differenza fra “opinioni grezze” e “opinioni informate” è dunque enorme. Di solito il cambiamento consiste in opinioni più articolate, corrispondenti a una più approfondita comprensione del problema.

Proviamo allora a elencare “cosa manca” a un sondaggio normale rispetto a uno deliberativo: (1) i membri del campione si incontrano faccia a faccia, (2) in veste di co-protagonisti e in uno spirito di mutuo apprendimento, (3) con la possibilità di condurre comuni ricerche di approfondimento, grazie al ricorso a esperti e testi ritenuti utili. Non è poco.

Questo esperimento ha un paio di implicazioni di enorme interesse implicite nella scelta del termine “deliberativo”. La prima è che aiuta a riflettere sulla natura dialogica del pensiero e di noi esseri umani e che la sua mistificazione non va sottovalutata; la seconda è la trasposizione nel campo politico, in quanto suggerisce che i sondaggi sulle “opinioni grezze”, per quanto interessanti e a volte divertenti, non possono sostituire forme più autentiche di partecipazione alla formazione delle decisioni pubbliche. Un regime democratico dovrebbe favorire e promuovere una società civile permeata di contesti di mutuo apprendimento. 

Una delle obiezioni che subito vengono in mente è che gli incontri faccia a faccia sono attuabili solo nei piccoli gruppi e che i comuni cittadini, oltre a votare ogni tot anni, sono in grado di esprimersi su dove mettere la panchina nei giardinetti, ma non su temi complessi come il traffico urbano, il sistema scolastico o la raccolta dei rifiuti. Il che ci conduce al secondo caso. 

Il secondo esempio, preso da una tipologia ormai ricca e ampia, è l’esperienza della Convention Citoyenne pour le Climat (CCC) che ha avuto luogo in Francia nel corso del 2019-2020. Il format di base è quello del sondaggio deliberativo, il soggetto collettivo operante è anche qui un campione statistico stratificato (in questo caso di 150 persone, rappresentative di tutti i cittadini francesi), ma ai tre punti sopra elencati se ne aggiunge un altro molto più ambizioso: su mandato di Macron, sono chiamati a «elaborare una serie di proposte legislative tese a ridurre le emissioni climalteranti almeno del 40% entro il 2030 in uno spirito di giustizia sociale». In questo caso dunque non basta il mutuo apprendimento, è necessario un contesto, un contenitore che permette di elaborare, con l’aiuto di una adeguata metodologia e di tutti gli esperti del caso, una visione condivisa e le proposte deputate a realizzarla. Sapendo che di questo gruppo fanno parte sei minorenni, un’infermiera a domicilio, operai e impiegati, oltre a professionisti vari, provenienti da città e paesi ai capi opposti del Paese, chiunque, a cominciare dai diretti protagonisti, deve pensare che si tratta di una missione impossibile.

Eppure ha funzionato. Grazie al fatto che si è potuto attingere a competenze di facilitazione presenti in Francia da molti decenni, alle expertise e finanziamenti necessari, e che si è stati in grado di “darsi tempo” (i lavori sono durati nove mesi), questa congrega di “cittadini qualunque”, si è via via trasformata in una vera assemblea deliberativa e ha raggiunto, su una tematica così complessa, dei risultati che appaiono incredibilmente coerenti, in prospettiva efficaci e saggi. Una delle partecipanti minorenni ha dichiarato a The Guardian, a lavori finiti: «All’inizio non sapevo quasi nulla sul clima, ma grazie a questa esperienza ho imparato ad ascoltare, a dibattere e che esiste l’intelligenza collettiva». Assolto il loro mandato presidenziale, i 150 hanno autonomamente deciso di non disperdersi, ma di costituirsi in un’associazione: “Les150ccc” . Consapevoli che, per obbligare il potere a tener conto delle loro indicazioni, è necessario che l’insieme dei cittadini francesi condividano questi risultati, hanno pubblicato le loro proposte su un apposito sito (https://propositions.conventioncitoyennepourleclimat.fr/), che ha visto un milione di accessi nella prima settimana. Stanno inoltre andando in giro per tutta la Francia, invitati fin nei paesini più minuscoli, a divulgare i metodi e gli esiti del loro lavoro e l’informazione che «la democrazia deliberativa non è un gioco, non è un gadget, qualcosa di futile, ma, al contrario, è qualcosa che può produrre davvero intelligenza e consenso» (dall’intervista di Agnese Bertello a Loïc Blondiaux, membro della Commissione Nazionale Dibattito Pubblico e del Comitato di governance della Convention, in Una Città, n. 268, 2020:).

Chi sostiene che dei “normali cittadini” non possono occuparsi di trasporti e così via è invitato a leggere le proposte prodotte dai 150, relative a cinque tematiche: Trasporti (11 obiettivi), Consumi (5 obiettivi), Abitazioni (3 obiettivi), Produrre/Lavorare (10 obiettivi), Nutrirsi (14 obiettivi). 

La domanda: «Come mai 150 cittadine e cittadini presi a caso riescono in nove mesi a raggiungere un obiettivo che il parlamento francese aveva ufficialmente in agenda dall’Accordo sul Clima di Parigi del 2015?» viene spontanea e la riprendo a conclusione di questo paragrafo, dopo aver accennato anche al terzo esempio.

Il terzo esempio riguarda la nascita, per gioco e serendipity, di quella che è la forma organizzativa capace di valorizzare le complessità, più semplice e più diffusa, adottata nel palazzo delle Nazioni Unite come nel villaggio africano, nelle periferie delle grandi metropoli come nella gestione di grandi imprese e corporation. L’aspetto che qui mi interessa sottolineare è che, pur essendo gli ingredienti da cui nasce l’Open Space Technology (OST) tutti rigorosamente extra-accademici, il suo impianto è lo stesso dei due sopra ricordati. L’inventore è un foto-giornalista, antropologo, appassionato di sistemi complessi che si chiama Harrison Owen.

Mi limito qui ad elencare cosa c’è nell’OST che è anche caratteristico degli altri due esempi sopra riportati, e, per converso, cosa di tutto questo manca nei dispositivi vigenti. Ogni dispositivo di felice gestione della complessità e di democrazia deliberativa si basa sui seguenti principi.

  1. Un format basato sull’alternanza di lavori in plenaria e in piccoli gruppi, entrambi con sedute circolari. Ogni singolo partecipante può prendere la parola sia in plenaria che nel piccolo gruppo, ma è consapevole che il faccia a faccia del piccolo gruppo aiuta a dare concretezza e pragmaticità alla discussione. 

  2. Ognuno si sente ascoltato e accolto nonostante le diversità e divergenze, che anzi sono considerate importanti contributi. Ognuno e ogni piccolo gruppo è consapevole che il tutto è più della somma delle parti e che il suo è un contributo che deve essere letto alla luce di tutti gli altri. 

  3. Prima si fanno emergere tutte le posizioni e si fanno domande non per criticarle, ma per capire le ragioni che le sottendono (ascolto attivo), poi ognuno si fa carico di cercare quali interessi e preoccupazioni comuni possono stare alla base di proposte anche divergenti e si impegna nella esplorazione di possibili soluzioni di mutuo gradimento (moltiplicazione delle opzioni, buone pratiche).

Mi fermo qui per far notare che nelle pratiche conversazionali tipiche della società moderna (siano queste un’assemblea di condominio, una discussione in famiglia, un comitato direttivo o un’aula parlamentare) mancano quasi completamente tutti e tre questi momenti interdipendenti.

In particolare, per riprendere un filo rimasto in sospeso, i partiti politici, rispetto a un campione casuale di cittadini che operano in un dispositivo di democrazia deliberativa, hanno i seguenti handicap: (1) il loro format ostacola l’apprezzamento della diversità e divergenza come fonte di conoscenza; (2) le opzioni di partenza, proposte dai grandi capi, sono quelle che contano e sulle quali ci si misura; and, last but not least: operano in uno spazio/tempo che esclude la possibilità di accogliere per davvero l’ottica dell’implementazione. I partiti politici, per ristabilire un dialogo con i cittadini costruttori di comunità, dovrebbero considerarsi meno degli incanalatori della volontà dei cittadini e più dei garanti della diffusione del gioco dell’ascolto nella società civile, e fra questa e le istituzioni rappresentative. 

Un fondamentale anello per favorire questo passaggio è illustrato nel punto che segue, che riguarda il ruolo e la concezione della “competenza professionale” nei due sistemi, semplice e complesso. Si tratta di un aspetto talmente vitale che ad esso sarà dedicata l’intera Parte II di questo scritto.

4 “Competenza professionale”

La formazione dei professionisti nella prima modernità è strettamente collegata all’accesso a competenze, ruoli e responsabilità escludenti piuttosto che dialogici e inclusivi. L’ethos e eidos dominante nelle università, a parte poche eccezioni che di solito sono anche eccellenze, tradotto in volgare è del tipo: «Ho studiato, so io come si fa, non rompetemi le palle. Al massimo se proprio necessario, posso confrontarmi con alcuni colleghi». Potere e accaparramento di informazioni e di conoscenze sono sempre andati a braccetto sia nell’antichità (il potere delle caste religiose) sia nella modernità, e non è casuale che la burocrazia dello stato moderno sia caratterizzata, come dice Max Weber, dal “segreto di ufficio”. Con l’avanzare della modernità, le comunità di pratica, il learning by doing, la bottega con i lavoranti, spariscono e il sapere trasmesso nelle aule universitarie, liberato dalle contingenze delle situazioni concrete, procede attraverso sistemi di catalogazioni che presentano come rilevanti alcuni aspetti e irrilevanti altri, specialmente quelli che si configurano come “unici” non riscontrabili altrove.

Il contrario del professionista escludente è il professionista che Donald Schön, all’inizio degli anni ’90, ha chiamato “riflessivo”, che l’architetto Giancarlo De Carlo ha chiamato “inclusivo” e John Forester “deliberativo”. In questa sede preferisco parlare di “professionista inclusivo”, perché la conversione dei professionisti da escludenti a inclusivi è la sfida principale per adeguare la società e la democrazia ai requisiti e parametri del mondo d’oggi. 

I burocrati e i professionisti che, nella società moderna, sono i capisaldi sui quali si reggono i poteri autoritativi delle istituzioni, e che, rispetto all’uomo della strada, si pongono come i guardiani dell’arco delle possibilità consentite, hanno nel passaggio alla seconda modernità questi due grandi handicap: non hanno mai imparato a costruire contesti di mutuo apprendimento, e non sanno confrontarsi in modo dialogico con la contingenza delle situazioni uniche e concrete. La inamovibilità della burocrazia affonda le radici negli stessi terreni sui quali si reggono l’autorevolezza e il potere esclusivo di qualsiasi altra professione. Nella seconda modernità il cambiamento non è più affidato alla lotta di classe, ma alla conversione dei gatekeepers. Fare i conti con i luoghi comuni che impediscono questa conversione è il tema della seconda e ultima parte di questo scritto. 

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