
Anche gli atei guardano con sospetto gli atei. Sembra un titolo clickbait, e invece è il risultato di una ricerca scientifica pubblicata su PNAS.
Chi si definisce non credente, intuitivamente dovrebbe fare un ragionamento di questo tipo: “io sono una brava persona e sono ateo, quindi non è la religione, di per sé, a migliorare gli esseri umani”. Invece la persona atea tende, in modo implicito e non del tutto consapevole, a preferire comunque la religione all’ateismo. È il fenomeno che il filosofo Daniel Dennett ha chiamano belief in belief: credere nel valore della fede, anche quando non si crede nei suoi contenuti.
Lo studio mostra che la religione, più che una convinzione personale, è un’eredità culturale profonda, che continua a plasmare le nostre intuizioni morali anche quando pensiamo di averla in qualche modo superata. Lo fa in modo silenzioso ma tenace, influenzando i giudizi, i riflessi cognitivi, e anche le nostre risposte ai dilemmi morali astratti.
La ricerca ha coinvolto oltre 3.800 partecipanti in otto paesi notoriamente secolarizzati: Canada, Cina, Repubblica Ceca, Giappone, Paesi Bassi, Svezia, Regno Unito e Vietnam.
Una questione di eredità culturale
Secondo gli autori, la religione ha svolto un ruolo molto importante nella storia dell'evoluzione culturale umana, contribuendo allo sviluppo della cooperazione tra gli esseri umani e delle norme morali condivise. Le religioni che si sono diffuse di più nella storia sono quelle che sono riuscite a combinare alcuni aspetti fondamentali: l’idea di una divinità che punisce o premia in base al comportamento delle persone, rituali praticati in gruppo da tutta la comunità, segnali visibili che mostrano chi prende davvero sul serio la propria fede e regole morali ben definite. Questi elementi, messi insieme, hanno aiutato le persone a fidarsi l’una dell’altra, a sentirsi parte dello stesso gruppo, e hanno reso quelle religioni più forti e più durature nel tempo.
Il risultato è che molti, in varie culture, tendono a percepire religione e moralità come strettamente connesse: diversi studi hanno mostrato che in vari contesti si ritiene che agire con moralità sia molto difficile se non si crede in una divinità, e che quindi la religione sia un elemento essenziale per una buona educazione morale. Lo conferma anche Vincenzo Pace, sociologo della religione e profondo conoscitore della secolarizzazione contemporanea: “Tendiamo a pensare alla religione come a una scelta individuale, ma è prima di tutto un’eredità: anche chi si definisce ateo nasce e vive in un contesto in cui una religione è stata dominante per secoli, ed è normale che continui a riconoscerne un valore sociale, anche se non ci crede più. La religione continua a circolare nel linguaggio, nei rituali quotidiani, nella distinzione tra ciò che è bene e ciò che è male, ed è un’eredità culturale profonda. La secolarizzazione può anche essere rapida sul piano delle pratiche, ma molto meno su quello simbolico e cognitivo: ciò che ereditiamo culturalmente non scompare da un giorno all’altro”.
“ La religione, più che una convinzione personale, è un’eredità culturale profonda, che continua a plasmare le nostre intuizioni morali anche quando pensiamo di averla in qualche modo superata
La religione va sparendo, ma i bias rimangono
Nel giro di poche generazioni molte società una volta profondamente religiose sono diventate marcatamente secolari (un esempio è quello tedesco).
Secondo gli autori, il processo di secolarizzazione si sviluppa in due fasi. La prima riguarda il contesto: quando le persone vivono in condizioni di maggiore sicurezza – con più benessere economico, accesso all’istruzione e alle cure sanitarie – la religione smette di essere una necessità psicologica per affrontare l’incertezza. La seconda fase ha a che fare con l’esempio degli adulti: quando la religione diventa meno importante nella vita quotidiana, scompaiono anche quei comportamenti visibili che servivano a dimostrare la sincerità della fede. La generazione successiva, non vedendo più questi segnali intorno a sé, tende a non “ereditare” la religione, così la perdita della fede può essere veloce e profonda. Ma lo è altrettanto anche il modo in cui valutiamo – più o meno consapevolmente – la religione e chi la pratica?
Secondo studi precedenti, anche in società secolari, molte persone associno l'ateismo a comportamenti gravemente immorali, come l'incesto o l'omicidio seriale. Questo tipo di associazione, presente anche tra gli stessi atei, suggerisce che l’idea inconscia che collega religione e moralità resista al cambiamento.
L’effetto Knobe
Per misurare l'eventuale preferenza intuitiva per la religione, gli autori hanno utilizzato una versione modificata del cosiddetto "effetto Knobe".
Questo esperimento valuta la tendenza delle persone ad attribuire intenzionalità a un effetto collaterale, a seconda che sia percepito come positivo o negativo. L’esperimento originale, ideato dal filosofo Joshua Knobe, funziona così: viene raccontata la storia di un dirigente d’azienda che approva un nuovo piano per aumentare i profitti. Gli dicono che questo piano avrà anche l’effetto di inquinare l’ambiente e lui risponde che non gli interessa dell’ambiente, vuole solo fare soldi. Il piano viene approvato, e l’ambiente viene effettivamente danneggiato. Quando si chiede ai partecipanti all’esperimento se il dirigente abbia danneggiato l’ambiente intenzionalmente, la maggior parte risponde di sì.
Se però si presenta la stessa storia cambiando solo l’effetto collaterale (il piano porterà a migliorare l’ambiente, ma il dirigente risponde comunque che non gli importa), allora la maggior parte delle persone risponde che non ha tutelato l’ambiente intenzionalmente.
L’effetto Knobe dimostra che tendiamo a giudicare un’azione come “intenzionale” più facilmente se il suo effetto ci sembra moralmente sbagliato: il nostro giudizio morale filtra e deforma quello che pensiamo sui motivi e sulle intenzioni dell’altro, anche se gli elementi della situazione sono gli stessi.
L’utilizzo dell’effetto Knobe in questo studio
Nella rivisitazione del test proposta dai ricercatori, i partecipanti leggono di un giornalista che propone un articolo che porterà a vendere più copie. Come effetto collaterale, il pezzo cambierà le convinzioni religiose di alcuni lettori: o li porterà all’ateismo, o li farà diventare credenti. Il direttore del giornale dichiara di non curarsi di questi effetti secondari, e di interessarsi solo alle vendite. Come nell’esperimento originale, i partecipanti devono rispondere se direttore ha volutamente fatto cambiare idea ai lettori sulla religione.
Secondo gli studiosi, se i partecipanti considerano più intenzionale la trasformazione in atei rispetto a quella in credenti, significa che percepiscono implicitamente l'ateismo come un effetto più negativo: il grado di intenzionalità attribuito è, in questo contesto, una misura indiretta della valenza morale percepita.
Dubbi sulle implicazioni
Lo studio ha coinvolto più di 3.800 persone in otto paesi. I risultati sono stati analizzati con modelli bayesiani multilivello, che permettono di tenere conto delle differenze culturali e della struttura gerarchica dei dati. Il risultato è stato netto: in tutti i paesi, tranne il Vietnam, i partecipanti attribuivano più spesso intenzionalità alla trasformazione in atei: questo suggerisce che, anche in assenza di fede, resta un riflesso intuitivo favorevole alla suddetta.
Sposare questa tesi, però, genera qualche dubbio di sovra implicazione. “L’effetto Knobe è interessante – spiega Pace – ma applicarlo a un tema come la religione richiede cautela: funziona bene per mostrare come giudichiamo in modo diverso le conseguenze morali delle azioni, ma qui si corre il rischio di semplificare troppo un campo, quello della fede, che è fatto di sfumature: non basta un esperimento ben congegnato per afferrare tutta la complessità di ciò che chiamiamo religione”.
Limiti dello studio
Il dubbio di cui abbiamo parlato, non implica che lo studio non sia valido: secondo Pace i risultati sono coerenti con quanto la sociologia, l’antropologia e la psicologia sociale avevano già osservato. Il docente sottolinea però come gli autori partano da presupposti teorici propri delle scienze cognitive, che se da una parte possono dare nuovi spunti, dall’altra tendono a ridurre i processi mentali a dinamiche neurali e computazionali: questo approccio è molto distante da quello umanistico e filosofico classico, basato su concetti come interiorità, coscienza e spiritualità.
L’eccessiva semplificazione emerge chiaramente nell’utilizzo del termine “ateo”. “Parlare di fede – precisa Pace – rinvia a un processo mentale complesso e personale, mentre parlare di religione rimanda a un sistema culturale collettivo. Lo studio assume che l’ateismo sia una posizione chiara e definita, mentre nella realtà sociale contemporanea esistono molte sfumature: l’ateismo radicale è solo una delle possibilità, ma molte delle persone che si definiscono atee continuano a coltivare interessi spirituali, pratiche di meditazione, oppure credenze non religiose, come quelle legate all’oroscopo, agli amuleti o ad altre forme di micromagia. Questa complessità sfugge alla dicotomia credente/ateo proposta dallo studio. L’idea che il cervello giudichi le azioni negative come più intenzionali di quelle positive è plausibile, ma non basta per costruire una teoria generale della religione: occorre tenere conto della complessità simbolica e culturale dell’esperienza religiosa, che non si esaurisce nei circuiti neurali”.
“ La religione può dissolversi dalle istituzioni e dalle pratiche pubbliche, ma i bias permangono più a lungo. I comportamenti cambiano in fretta, i giudizi no
Uno studio da approfondire
Pace valuta positivamente lo studio, pur mettendone in evidenza i limiti, alcuni rilevati anche dagli stessi scienziati: la ricerca dimostra che l’intuizione a favore della religione non sparisce con la secolarizzazione, ma questo non significa che l'ateismo sia incoerente o che la secolarizzazione sia solo di facciata. Ci mette però davanti a una sfida interessante: capire quanto e come le convinzioni morali implicite siano plasmate da secoli di cultura religiosa, e quanto tempo servirà per produrre una vera cultura secolare anche a livello cognitivo. Probabilmente molto: “Anche quando le istituzioni religiose perdono autorevolezza – spiega Pace – il potere simbolico delle religioni resta attivo. Lo vediamo, ad esempio, nei funerali civili che mantengono strutture rituali religiose, o nella persistenza di immagini e formule nel linguaggio quotidiano. La religione resiste e persiste”.
Per comprendere davvero il fenomeno, servono forse strumenti concettuali più sofisticati, capaci di cogliere le sfumature dell’esperienza religiosa contemporanea: occorre studiare più a fondo il contesto simbolico in cui crescono le nuove generazioni, le forme di spiritualità diffusa, le credenze ibride, i linguaggi religiosi in trasformazione. Solo così sarà possibile spiegare perché, anche in assenza di fede, continuiamo a pensare che credere sia qualcosa di buono.