SOCIETÀ

COP15 di Montreal. Ciccarese: “Accordo storico, ora impegnarsi per realizzarlo”

A Montréal, in Canada, poco prima di Natale i 196 Paesi che fanno parte della Convenzione sulla Diversità Biologica (Convention on Biological Diversity, CBD) hanno aderito a un accordo che mira a realizzare la visione di “un mondo in armonia con la natura”. Questo è il principio ispiratore del Global Biodiversity Framework, il documento licenziato all’unanimità in chiusura dei lavori della quindicesima conferenza delle parti sulla biodiversità.

Il Global Biodiversity Framework, approvato insieme ad altri cinque documenti ad esso correlati, è composto di ventitré target e quattro goal che indicano la strada da percorrere per far sì che, entro la metà del secolo, «la biodiversità sia valorizzata, preservata, ripristinata e utilizzata con saggezza, così da mantenere i servizi ecosistemici, sostenere un pianeta sano e offrire benefici essenziali a tutta l’umanità». I 23 target, definiti come “orientati all’azione”, andranno raggiunti entro il 2030, mentre i 4 goal, “orientati al risultato”, dovranno essere realizzati entro il 2050.

Secondo il ricercatore ISPRA Lorenzo Ciccarese, che ha lavorato all’accordo nel corso dei tre anni di negoziati e ha partecipato all’appuntamento di Montréal in qualità di vice-capo della delegazione italiana, l’approvazione di questo testo è un grande passo avanti per la tutela della natura. «Sono molti i motivi di soddisfazione nella lettura di questo testo. Innanzitutto, il fatto che esso sia saldamente basato sulle evidenze scientifiche, come quelle contenute nell’importante Global Assessment Report pubblicato dall’IPBES nel 2019».

«Il testo è, nel suo complesso, molto coerente. È importante, in primo luogo, che siano stati rispettati i tre grandi obiettivi della CBD – conservazione, uso sostenibile di biodiversità e servizi ecosistemici, giusta ed equa distribuzione dei benefici –, che ritroviamo nei quattro goal da realizzare entro il 2050. Inoltre, il testo richiama in modo esplicito i principali driver della perdita di biodiversità, già individuati nel rapporto IPBES del 2019: distruzione e frammentazione degli habitat, uso eccessivo delle risorse biologiche, inquinamento (l’accordo parla esplicitamente di agricoltura, selvicoltura, pesca, acquacoltura e richiama all’integrazione del valore della biodiversità nelle strategie politiche per questi diversi settori), specie aliene invasive (target 6), e cambiamenti climatici (target 8)».

Il 30% della Terra, per tutti

Dei 23 target da mettere in atto nei prossimi otto anni, alcuni sono divenuti veri e propri simboli per il cambiamento che dovrà avvenire. Uno di questi è senz’altro il target 3, che contiene la ben nota misura di ampliamento delle aree protette fino al 30% degli ambienti terrestri e marini entro il 2030.

«A mio avviso – spiega Ciccarese – questo è il risultato più importante tra quelli raggiunti: non dimentichiamo, infatti, che da esso discendono tutti gli altri target del primo gruppo (1-8), quelli associati al goal A. Inoltre, è interessante capire cosa si intende per “protezione ambientale”, e quali metodologie sono state ritenute dei validi strumenti di conservazione: serviranno a questo scopo non soltanto le aree protette – secondo la classificazione della IUCN –, ma anche altre misure di conservazione che si sono rivelate altrettanto efficaci. Tra queste, la gestione dei territori da parte dei popoli indigeni, il cui ruolo nella tutela della biodiversità viene finalmente riconosciuto: questa è un’altra importante novità contenuta nell’accordo».

Nel testo, infatti, i popoli indigeni e i loro diritti vengono menzionati in ben sette dei ventitré obiettivi, mostrando una inedita attenzione all’importanza di un approccio autenticamente inclusivo. «Questa estensione alle popolazioni indigene è stata chiesta soprattutto da Brasile, Argentina e molti altri paesi non europei, nei quali le minoranze indigene sono numerose», commenta ancora il ricercatore. «All’inizio, questa richiesta è stata accolta con un po’ di resistenza: si credeva che potesse essere un modo per eludere i reali impegni di conservazione. In breve, però, si è compresa l’importanza di questa integrazione, e i benefici che potranno derivarne».

È noto, infatti, che le popolazioni indigene – che rappresentano solo il 5% dell’intera popolazione umana – vivono in territori nei quali è racchiuso l’80% dell’intera biodiversità terrestre; le culture tradizionali, il cui radicamento nei territori d’origine è incredibilmente profondo, sono essenziali nel proteggere tale ricchezza biologica. «Quando i popoli indigeni vengono coinvolti attivamente – sono diversi, ormai, gli esempi di questa sinergia – nell’individuazione dei territori da rendere aree protette, e poi nei processi di gestione e di governo, si ottengono risultati migliori, perché si raggiunge un migliore equilibrio tra le esigenze dei popoli che da sempre vivono in quei territori e le esigenze di conservazione, solo apparentemente in contrapposizione con le prime».

Tutta la società e tutti i livelli di governo

Molto importante, al di là del cosa, è il come: l’ultimo gruppo di target – dal 14 al 23 – è incentrato sugli “Strumenti e soluzioni per l’implementazione”. Un tema centrale è quello dell’inclusione: perché la società impari a “vivere in armonia con la natura”, l’azione dall’alto di governi nazionali e organismi internazionali non è sufficiente. «Un forte principio di inclusione è stato una costante dei tre anni di negoziati per il Global Biodiversity Framework», ricorda Ciccarese. «L’obiettivo era quello di mettere pienamente in atto i concetti di whole-of-society e whole-of-government, entrambi essenziali perché le misure di tutela della biodiversità siano davvero efficaci».

È altrettanto degno di nota – e in linea con questo spirito – il massiccio coinvolgimento delle imprese, che sono chiamate a prendere consapevolezza della propria impronta ecologica e a contribuire attivamente, sia finanziariamente che attraverso l’implementazione di buone pratiche, a ridurre la distruzione della biodiversità. I target 15 e 16 sono dedicati proprio a questo nodo: il quindicesimo obiettivo, infatti, invita gli Stati a «prendere misure legali, amministrative o politiche per incoraggiare il settore imprenditoriale, e in particolar modo le grandi aziende, a monitorare e valutare regolarmente la propria dipendenza e il proprio impatto sulla biodiversità, […] ad informare adeguatamente i consumatori in modo da promuovere modelli di consumo sostenibile, […] per ridurre progressivamente gli impatti negativi sulla biodiversità e aumentare quelli positivi […]».

Il target 16, d’altro canto, affronta l’altro lato della questione: la consapevolezza e l’impegno dei consumatori. Si raccomanda infatti ai governi di promuovere ed incoraggiare scelte di consumo più sostenibili, migliorando l’educazione e aumentando le informazioni in merito alle alternative disponibili e, soprattutto, «di impegnarsi, entro il 2030, a ridurre in modo equo l’impronta globale di consumo e a dimezzare lo spreco di cibo su scala globale, diminuendo in modo significativo il sovraconsumo e riducendo in modo sostanziale la creazione di rifiuti, per permettere a tutti di vivere bene e in armonia con Madre Terra».

Limiti

Nonostante le molte novità positive, non si tratta certo di un accordo perfetto. In molti dei target per il 2030, ad esempio, mancano obiettivi numerici: questo renderà più difficile monitorare l’attuazione e valutare il successo degli obiettivi. In molti punti, inoltre, vi sono termini che si prestano ad interpretazione: è il caso di concetti come l’“uso sostenibile delle risorse”, gli “approcci agroecologici”, la “degradazione ambientale”. Questo è un elemento di debolezza dell’accordo, ma non bisogna scoraggiarsi: «È importante sapere – precisa Lorenzo Ciccarese – che a valle dell’accordo verrà prodotto un glossario il cui compito sarà proprio definire concetti complessi come questi. Di elaborare questo strumento si occuperà un gruppo di lavoro ad hoc».

Un altro grande limite di questo accordo – condiviso, peraltro, con l’accordo di Parigi sulla mitigazione dei cambiamenti climatici – è l’assenza di impegni vincolanti per le parti firmatarie. Come chiarisce ancora Ciccarese, il Global Biodiversity Framework «sarà addirittura meno vincolante dell’Accordo di Parigi. Ciò, tuttavia, non significa che i paesi non metteranno in campo misure adeguate. I vantaggi economici derivanti dal mantenere in buona salute il mondo naturale sono sempre più evidenti, e per questo molti Paesi si stanno muovendo nella giusta direzione, che coincide con l’osservanza della Convenzione. La Cina, ad esempio, si è ormai affermata come leader nell’ambito delle negoziazioni internazionali sulla protezione della natura; questo suo ruolo è stato sancito in particolare grazie a questa presidenza, durante la quale ha mostrato una capacità diplomatica molto più spiccata rispetto a quella di altri paesi.

In questo nuovo quadro, inoltre, i Paesi vogliono evitare di cadere nella trappola del naming and shaming: chi non raggiunge gli impegni individuati in un accordo internazionale – non importa se in un contesto di hard o soft law – perde di reputazione in ambito internazionale».

Implementazione

Seppur in assenza di un vincolo giuridico, dunque, sembra che qualcosa si stia muovendo. Il pacchetto di decisioni approvato insieme al Global Biodiversity Framework non tralascia la dimensione dell’attuazione e del controllo: una delle decisioni ratificate in Canada, infatti, riguarda proprio i temi del “Monitoraggio, rendicontazione e revisione”. Lo scopo di questo documento è definire le procedure da seguire per portare a termine le attività di monitoraggio e revisione, e i metodi per valutare e riportare il livello di avvicinamento agli obiettivi individuati.

Anche su questo tema, Ciccarese ci consente di comprendere i complessi meccanismi della negoziazione: «Anche in questo caso è stato istituito un gruppo di lavoro ad hoc, il cui compito è innanzitutto l’individuazione degli indicatori: si tratta di un lavoro molto importante soprattutto per i target che non contengono valori numerici. Questo porterà ad identificare sia gli headline indicators, che hanno valenza globale, sia gli indicatori che dovranno essere modulati separatamente in base alle diverse esigenze nazionali e regionali».

Un tema caldo delle negoziazioni, sul quale è stato raggiunto un compromesso che ha lasciato molte parti insoddisfatte – come spesso accade in sede negoziale – è quello relativo alla mobilizzazione delle risorse.

Secondo un rapporto stilato dal Paulson Institute in collaborazione con l’organizzazione The Nature Conservancy, intitolato “Finanziare la natura: colmare il divario nel finanziamento alla biodiversità globale”, il divario tra i fondi che vengono oggi destinati alla preservazione della natura e quelli che sono necessari è ancora molto ampio. Nel 2019, gli investimenti globali per la biodiversità ammontavano a circa 130-140 miliardi di dollari l’anno, mentre si stima che i fondi necessari per un’efficace protezione della natura siano tra i 722 e i 967 miliardi di dollari annui. Si parla di un divario di circa 600-800 miliardi di dollari all’anno.

«Mobilizzare un così vasto numero di risorse sarebbe decisamente complicato – afferma Ciccarese – se si dovessero dirottare da altri investimenti già in corso. Nel target 18, invece, si indica con chiarezza una soluzione alternativa: eliminare progressivamente i sussidi ambientalmente dannosi e reinvestire i soldi così risparmiati in attività con impatto positivo. L’obiettivo di riduzione è di 500 miliardi di dollari entro il 2030: questo permetterebbe di diminuire significativamente il divario quantificato nel rapporto Financing Nature».

Educazione e comunicazione

Pur mantenendo un lucido realismo, Lorenzo Ciccarese, al termine delle ultime due settimane di negoziato, si dichiara ottimista. «Tuttavia, so che realizzare questi obiettivi entro il 2030 è complicato. Molto dipenderà dagli strumenti che verranno messi a punto in termini di monitoraggio e revisione.

Non bisogna dimenticare, d’altra parte, la centralità di una buona comunicazione e di una solida educazione e formazione della società civile. Abbiamo bisogno, in primo luogo, di un maggiore impegno da parte dei decisori politici, che sono chiamati a fare la propria parte attraverso l’emanazione di politiche e strumenti attuativi efficaci, che consentano alla società di muoversi nella giusta direzione. In secondo luogo, è essenziale il coinvolgimento delle grandi imprese, perché senza il loro impegno molti degli sforzi fatti fin qui saranno stati vani. Infine, abbiamo bisogno del coinvolgimento della società civile e dei singoli cittadini: scuole, università, organi d’informazione hanno un ruolo fondamentale nel creare una nuova sensibilità», nel porre le basi per una società che sappia vivere in armonia con la natura.

Pur con due anni di ritardo – il Global Biodiversity Framework avrebbe dovuto essere pronto già nel 2020 – il mondo ha finalmente una nuova tabella di marcia per sanare il proprio rapporto con il mondo non umano. Ma è solo il primo passo: nei prossimi otto anni bisognerà lavorare duramente realizzare un programma tanto ambizioso quanto necessario. Lorenzo Ciccarese sorride: «Questo è solo l’inizio».

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